Carlo Goldoni
I due gemelli veneziani

ATTO PRIMO

SCENA UNDICESIMA

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SCENA UNDICESIMA

 

Lelio e detti.

 

LEL. Bellissima veneziana, ho risaputo dal vetturino che voi bramate ritornare alla vostra patria; se così è, fate capitale di me: vi darò calesse, cavalli, staffieri, lacchè, denari e quanto volete, purché mi concediate il piacere di accompagnarvi.

BEAT. (Che sguaiato!) (da sé)

FLOR. Signore, mi favorisca. Con che titolo offre ella tante magnifiche cose alla signora Beatrice, mentre la vede in mia compagnia?

LEL. Che importa a me ch’ella sia in vostra compagnia: ho io soggezione di voi? Chi siete voi? Suo fratello, suo parente, o qualche suo condottiere?

FLOR. Mi maraviglio di voi e del vostro cattivo procedere. Sono un uomo d’onore. Sono uno che ha impegno di custodir questa donna.

LEL. Oh amico, siete in un difficile impegno!

FLOR. E perché?

LEL. Perché a custodir una donna ci vogliono altre barbe che la vostra.

FLOR. Eppure mi l’animo di tener a dovere voi, e chiunque altro simile a voi.

LEL. Orsù, alle corte. Vi occorre nulla da me? Avete bisogno di denaro, di roba, di protezione? Comandate (a Beatrice)

FLOR. Voi mi farete perder la pazienza.

LEL. Eh, vi conosco alla cera; siete un giovine di garbo. Signora Beatrice, mi dia la mano, e si lasci servire.

BEAT. Mi sembrate un bell’impertinente.

LEL. In amore vi vuole audacia. A che servono tante inutili cerimonie? Via, andiamo. (la vuol prender per mano, ed ella si ritira)

FLOR. Abbiate creanza, vi dico. (gli una spinta)

LEL. A me questo? A me, temerario? A me, che uomo del mondo non può vantarsi d’avermi guardato con occhio brusco, che non abbia anche pagato col sangue il soverchio suo ardire? Sai tu chi sono? Sono il marchese Lelio, signor di Monte Fresco, conte di Fonte Chiara, giurisdicente di Selva Ombrosa. Ho più terre che tu non hai capelli in quella mal pettinata parrucca, ed ho più centinaia di doppie, che tu non hai avuto bastonate.

FLOR. Ed io credo che tu abbia più pazzie nel capo, di quel che vi sieno arene nel mare e stelle nel cielo. (Chi non lo conoscesse? Si vanta conte, marchese, ed è nipote del dottor Balanzoni). (da sé)

LEL. O venga meco la donna, o tu vittima del mio sdegno.

FLOR. Questa donna vien da me custodita: e se hai che pretender da me, ti risponderò colla spada.

LEL. Povero giovine! Ti compatisco. Tu vuoi morire, non è così?

BEAT. (Signor Florindo, non vi cimentate con costui). (piano a Florindo)

FLOR. (Eh, non temete. Abbasserò io la sua alterigia). (a Beatrice)

LEL. Vivete ancora, che siete giovine, e lasciatemi questa donna. Delle donne n’è pieno il mondo. La vita è una sola.

FLOR. Stimo più della vita l’onore. O partite, o impugnate la spada. (mette mano)

LEL. Non sei mio pari, non sei nobile, non mi vobatter teco.

FLOR. O nobile, o plebeo, così si trattano i vili tuoi pari. (gli una piattonata)

LEL. A me questo! Dei tutelari della mia nobiltà, assistetemi nel cimento. (pone mano)

FLOR. Ora vedremo la tua bravura. (si battono)

BEAT. Oh me infelice! Non votrovarmi presente a qualche tragedia. Mi ritirerò nell’albergo vicino. (Nel mentre che li due si battono, Beatrice parte col Servo)

 

 

 


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