Carlo Goldoni
I due gemelli veneziani

ATTO TERZO

SCENA VENTISETTESIMA

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SCENA VENTISETTESIMA

 

Lelio e detti.

 

LEL. Alto, alto quanti siete! guardatevi da un disperato.

TON. Forti, sior Lelio, che al mal fatto no gh’è remedio. Beatrice xe mia muggier.

LEL. Sconvolgerò gli abissi. Porrò sossopra il mondo!

TON. Mo perché vorla far tanto mal?

LEL. Perché son disperato.

TON. Ghe sarave un remedio.

LEL. E quale?

TON. Sposar la siora Rosaura co quindese mille ducati de dota, e altrettanti dopo la morte del sior Dottor.

LEL. Trenta mila ducati di dote? La proposizione non mi dispiace.

TON. E la putta ghe piasela?

LEL. A chi non piacerebbe? Trenta mila ducati formano una rara bellezza.

TON. Non occorre altro, e se farà tutto: qua in strada no stemo ben. Andemo in casa, e se darà sesto a ogni cossa. Beatrice xe mia, Rosaura sarà del sior Lelio. Ela contenta? (a Rosaura)

ROS. Io farò sempre il volere di mio padre.

DOTT. Brava, ragazza. Voi mi date la vita. Caro signor Tonino, vi sono obbligato. Ma andiamo a far le scritture, prima che la cosa si raffreddi.

TON. Cussì tutti sarà contenti.

FLOR. Non sarò già io contento, mentre mi trafigge il cuore il dolore d’aver tradita la nostra amicizia.

TON. Vergogneve d’averme tradio, d’aver procurà de far l’azion più indegna che far se possa. Ve compatisso, perché stà innamorà, e se pentio della vostra mancanza, ve torno a accettar come amigo.

FLOR. Accetto la vostra generosa bontà; e vi giuro in avvenire la più fedele amicizia.

 

 

 


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