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Trastullo, poi Arlecchino
TRAST. Ho piacere d’aver riparato al pericolo del signor Pancrazio. Egli è stato il mio padrone, e mi ha fatto de’ benefizi, e non me ne posso dimenticare. Son obbligato a servir chi mi paga, ma sino a un certo segno; bisogna procurar di contentarlo, contribuire alle sue soddisfazioni, ma dentro i limiti, senza precipizi e senza arrischiare la vita di nessuno. Così deve fare un servitore fedele, un uomo onorato, e così... Ma viene Arlecchino fuori di casa; la sorte lo manda a proposito, mi prevalerò di lui.
ARL. Cossa diavolo fa sta femmena, che non la vien?
ARL. Co ti me dis cugnà, ti me consoli, ma gh’ho paura...
TRAST. Niente, te l’ho promesso; mia sorella sarà tua moglie. Vieni con me, che ti ho da parlare.
ARL. Caro cugnà, no posso vegnir.
TRAST. Perché non puoi tu venire?
ARL. Perché aspetto Fiammetta to sorella, che l’è fora de cà, e me preme de vederla e ghe vôi parlar.
TRAST. Le parlerai un’altra volta, andiamo.
ARL. M’è vegnù in mente una cossa; se no ghe la digo subito, me la scordo.
TRAST. Cos’è questa gran cosa?
ARL. L’è che vôi dirghe quando la se destriga de torme per marì.
TRAST. Eh, glielo dirai un’altra volta.
ARL. Bisogna che ghel diga adesso.
ARL. Perché me sento inasinido per el matrimonio.
TRAST. Via, andiamo, le parlerò io.
TRAST. Vieni, che ti ho da parlare.
ARL. Làsseme concluder con to sorella, e po ti me parlerà.
TRAST. Ti prometto che in questo giorno mia sorella sarà tua moglie.
ARL. Varda come che ti te impegni!
ARL. Varda che ti ghe penserà ti.
TRAST. Son galantuomo: quando prometto, non manco. Ma ancora tu hai da fare una cosa per me.
ARL. Marideme e farò tutto quel che ti vol.
TRAST. Andiamo; qua in pubblico non ti voglio parlare.
ARL. Son con ti, ma... Arrecordete... Non posso più.