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Lelio, Beatrice, Fiammetta, Arlecchino e detti.
BEAT. Mi rallegro con la signora cognata.
ROS. Rallegratevi veramente meco, se voi mi amate; poiché la più felice, la più lieta femmina non vi è di me in questo mondo.
FIAMM. Anch’io me ne consolo, signora padrona.
ARL. E mi niente affatto.
ROS. Niente! Perché?
ARL. Perché le vostre consolazion no le remedia le me desgrazie. Vu sì contenta col matrimonio, e mi son desperà, perché Fiammetta no me vol.
ROS. Perché, poverino, non lo vuoi? Non vedi che è tanto buono?
PANC. Sposalo, sciocca, che starai bene.
TRAST. Sorella, fa questo matrimonio, che ti chiamerai contenta.
OTT. Via, ti darò io trecento scudi di dote.
FIAMM. A quest’ultima ragione mi persuado. Arlecchino, sarò tua moglie.
ARL. Sto sarò l’è un pezzo che el me va seccando.
FIAMM. I trecento scudi. (ad Ottavio)
ARL. Evviva, o cara; adesso sì son contento.
LEL. Non vedi che ti sposa per i trecento scudi? (ad Arlecchino)
ARL. Cossa m’importa a mi? Ella goderà i trecento scudi e mi gh’averò la muggier.
PANC. Andiamo dunque a disporre le cose, per celebrare con maggior allegrezza gli sposalizi.
DOTT. Signor Pancrazio, signori tutti, vi riverisco. Quel ch’è stato, è stato. Vi prego almeno per la mia riputazione non dirlo a nessuno, perché mi farebbero le fischiate. (parte)
TRAST. Gli vado dietro per aver la mia parte.
PANC. Trastullo, siete padrone di casa mia. Vi son tanto obbligato.
TRAST. Ho fatto il mio dovere. E vi sono umilissimo servitore. (parte)
PANC. Ottavio, sei tu contento?
OTT. La consolazione mi opprime il cuore.
PANC. E voi, figlia mia? (a Rosaura)
ROS. Io non merito certamente il gran bene che oggi dal cielo, da voi e dalla fortuna ricevo. Sono unita al mio caro sposo, sono al possesso della mia eredità, sono in casa di persone che amo, e venero, e stimo; onde chi sa i miei casi, chi ravvisa il mio stato, dirà con ragione ch’io sono l’erede da principio per vero dire angustiata ed afflitta, ma poi per favor del cielo felice e contenta.
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