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FLOR.
Signora, vi domanda il signor Fabrizio, e vi aspetta nella sua camera.
ROS.
Andiamo dunque a vedere quel che comanda il signor zio.
FLOR.
Lasciatevi servire. (vuol dar la mano a Rosaura)
Cavève, sior; tocca a mi, che son forestier, a servirla. Ho studià anca mi el Galateo. Vardè come se fa a servir la macchina. (dà braccio a Rosaura, con caricatura)
FLOR.
Questa è un’impertinenza.
ROS.
Chetatevi, che avete il torto. (a Florindo)
Me voressi insegnar a mi? Son zentilomo da Torzelo, e so trattar co le donne civili, e so le regole della zentilomenaria.
FLOR.
Che pretendete voi sopra di questa giovane?
I fatti mii no ve li digo a vu, sior martuffo.
FLOR.
ROS.
Signori, dovreste usare un poco più di prudenza.
Brava, la parla con vu. (a Florindo)
FLOR.
Mi maraviglio che la signora Rosaura vi soffra. So perché lo fa, e perché tace. Ma s’ella tace, non tacerò io: signor veneziano, fuori di questa casa mi renderete conto dell’ingiuria che mi avete detto, colla spada alla mano.
Co la spada? Mi, compare, la spada la porto per usanza e no la so manizar. Se volè che femo una mostra de pugni, ve servirò.
FLOR.
ROS.
Orsù, signor Florindo, contentatevi di andare altrove. In casa mia voi non ci comandate.
FLOR.
Ho inteso. Con quel signore ci parleremo con comodo. Intanto andrò a fare le mie doglianze con vostro zio. (parte)