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Rosaura, Florindo e detto, poi il Servitore
(Oimei! xe qua quel sior dalla spada). (timoroso)
ROS.
Signor Tonino, non vi dia ombra alcuna vedermi venir col signor Florindo. Egli è un uomo assai ragionevole. Sapete come a lui ha parlato mio zio. Avete da essere buoni amici.
Mi son amigo de tutti. Ghe vôi ben, ghe vorrò sempre ben, basta che nol me fazza paura.
FLOR.
Basta che voi trattiate con termini civili ed onesti. (a Tonino)
Diseme, caro vecchio, se sposasse siora Rosaura, ve ne averessi per mal?
FLOR.
Le ragioni addottemi dal signor Fabrizio mi hanno disposto ad una perfetta rassegnazione.
Bravo, cussì me piase. Saremo amici.
FLOR.
E voi vi dolerete di me, qualora essendo vostra sposa la signora Rosaura, mi procuri l’onore di onestamente servirla?
Gnente affatto; anzi me farè finezza, ve sarò obbligà.
ROS.
FLOR.
Per servirla, obbedirla e reverenziarla.
ROS.
È molto bello, molto grazioso.
Sempre per favorirla.
FLOR.
Mi piacciono quei nèi sul viso. Siete il ritratto della galanteria.
Tutto effetto della sua dabbenaggine.
FLOR.
Anzi della vostra.
ROS.
Sediamo un poco in conversazione.
Tutto quello che la comanda. La donna in mezzo. Dirò come che se dise: In medio stabat virtutis.
FLOR.
(Quanti spropositi!) (da sé)
ROS.
Credo che el sia o dell’Ariosto, o del Tasso.
FLOR.
Prendete tabacco? (gli offre tabacco)
Obbligatissimo. Ne tengo, ma non ne prendo.
FLOR.
Perché non ne prendete?
Per no sporcarme, con reverenza, el naso.
ROS.
Favorisca a me una presa delle sue grazie.
Subito la favorisso.
FLOR.
(Che complimenti obbliganti!) (da sé)
(Tira fuori una tabacchiera involta in un foglio)
FLOR.
Di che mai è quella sua tabacchiera? È una qualche gioja preziosa?
La xe d’arzento massizzo. La tegno incartada, acciò che no la se insporca.
FLOR.
Che pulizia ammirabile!
Prenda e s’imbalsami. (a Rosaura)
FLOR.
La senta che roba. Siviglia d’Albania. (a Florindo)
ROS.
È molto secca questa vostra Siviglia Albanese. Quant’è che l’avete?
Me l’ha donada sior santolo, che sarà debotto tre anni.
FLOR.
La lascierete ai vostri figliuoli per fideicommisso.
La diga, sior Florindo, no la gh’ha gnente da far adesso?
FLOR.
Niente affatto.
No l’anderave a dar una ziradina?
FLOR.
Sto qui per voi, per tenervi conversazione.
Per mi la vaga pur, che la mando.
FLOR.
(Siamo alle solite). (a Rosaura)
ROS.
(Compatitelo; lo conoscete). (a Florindo)
Per dirghela, sior Florindo, la me dà un pochetto de suggizion.
FLOR.
Non vi prendete soggezione di me. Fate conto che io non ci sia. Parlate e trattate con libertà.
Bravo; cussì me piase. La diga, patrona, cossa fala? Stala ben? Come staghio in te la so cara grazia? Me par che sia un bel caldo; con so bona licenza. (si cava la parrucca, e l’attacca alla sedia)
FLOR.
(Oh la bella figurina!) (da sé)
ROS.
Perdonatemi, signore; questa è una mala creanza.
La compatissa; ghe remedieremo. (si mette un berrettino)
ROS.
Peggio. Parete un villano con quella berretta.
Scondemola. (si pone un fazzoletto in capo)
FLOR.
Sono cose da crepar di ridere.
ROS.
Eh via, mettetevi la vostra parrucca.
ROS.
Se vien gente, che volete che si dica di voi?
La gh’ha rason. Me metterò la perucca. (si rimette la parrucca in capo, e tira lo specchietto, e se l’accomoda con caricatura)
ROS.
Ah? cossa disela? ghe piasio? (a Rosaura) (Caro sior, andè via de qua). (a Florindo)
Signor Tonino, il padrone la dimanda.
Vegno subito. (si alza, e parte senza dir niente a nesuno)
FLOR.
Che vi pare di questo bel garbo? (a Rosaura)
ROS.
Certamente ha delle cose stravagantissime.
FLOR.
E voi vi adattereste a pigliarlo?
ROS.
Signor Florindo, il signor Tonino ha d’entrata all’anno quattromila scudi. (parte)
FLOR.
Per questa parte la compatisco; io non ne ho quattrocento. (parte)