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Fabrizio, il Servitore, poi Beatrice
FABR.
Che venga questa signora. E vieni tu ancora con lei, non mi lasciar solo; non si può mai sapere. (al Servitore che parte, e poi ritorna con Beatrice) Il partito è buono per mia nipote, quando mi riesca tirarlo in Roma sotto la mia educazione, e quando possa assicurarmi che riesca bene.
BEAT.
Signore, compatite l’incomodo che vi reco.
FABR.
In che cosa vi posso servire?
BEAT.
In casa vostra mi dicono vi sia certo signor Ottavio Aretusi; è egli vero?
FABR.
Verissimo; è di là nel mio studio.
BEAT.
Bramerei di vederlo e di potergli parlare in presenza vostra.
FABR.
Chi siete voi, signora?
BEAT.
Sono la di lui sposa.
FABR.
Quand’è così, vi servo subito. Ma perché gli volete parlare in presenza mia?
BEAT.
Per vedere se coll’aiuto vostro mi riesce di renderlo al suo dovere. Egli mi tratta male. Non fa più conto di me, vuole abbandonarmi, e di più nega di rendermi quello ch’è mio. Ho fatto qualche ricorso contro di lui, ma ne sono quasi pentita, perché prevedo il suo precipizio; onde a voi mi raccomando, e per la sua salvezza, e per la mia quiete, e per la comune nostra riputazione.
FABR.
Son qui a far tutto quello ch’io posso per il vostro bene. Andatemi a chiamare il signor Ottavio. (al Servitore, che parte)
BEAT.
Dubito che lo ritroverete assai pertinace.
FABR.
Gli avete dato motivo di essere con voi sdegnato?
BEAT.
No certo, da me non ha avuto che benefizi e rassegnazione.
FABR.
Eccolo ch’egli viene.