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FLOR. Che c’è, caro Brighella?
BRIGH. Una maschera domanda de ella.
FLOR. Una maschera? Vuol giuocare?
BRIGH. L’è una maschera donna.
BRIGH. Veramente le son do: ma credo che una sia la padrona e l’altra la serva.
FLOR. Chi diavolo possono essere?
BRIGH. Mi credo che la sia la signora Rosaura colla so camariera.
FLOR. Bisognava dirle ch’io non ci sono.
BRIGH. Mo perché? No ela una, che ha da esser so muier?
FLOR. Sì, e per questo non voleva che mi ritrovasse al casino.
BRIGH. Za tutti sa che el zoga. Nol se pol sconder.
FLOR. Mah! Mi par impossibile che sia la signora Rosaura; a quest’ora in maschera una figlia savia e civile? Sua zia, alla quale l’ha data in custodia il signor Pantalone suo padre, non lo permetterebbe assolutissimamente. Può esser che sia la signora Beatrice.
BRIGH. Chi ela mo sta siora Beatrice?
FLOR. È quella virtuosa di musica, che è venuta a cantare nell’opera tre anni sono, e a mio riguardo ha tralasciata la professione.
BRIGH. Ah, l’è quella che ho sentido a dir tante volte che in tre anni averà costà a vusustrissima più de diesemille ducati.
FLOR. Se ho speso qualche cosa per lei, l’ho fatto perché è una donna assai propria.
BRIGH. Sento a chiamar; sarà le maschere. Vólela che le fazza vegnir?
FLOR. Fatele venire. Vedremo chi sono.
BRIGH. Vólela lassar quei bezzi sul tavolin?
FLOR. No, tenete. Questi cinquecento zecchini, in queste due borse, riponeteli; questi dugento li terrò io in tasca.
BRIGH. Quelli la li vol perder.
FLOR. Oh, questi hanno a servire per uccel da richiamo. Con questi dugento zecchini non passano tre mesi che ne faccio almen trentamila.
BRIGH. El ciel ghe daga la grazia; ma la guarda ben...
FLOR. Non mi fate cattivo augurio.
BRIGH. Oh, no digo gnente. (Castelli in aria). (da sé, parte)