Carlo Goldoni
Il giuocatore

ATTO TERZO

SCENA DODICESIMA

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SCENA DODICESIMA

 

Tiburzio e detto.

 

TIB. Una parola, signor Florindo.

FLOR. Che cosa comandate?

TIB. Favorite di pagarmi cento zecchini.

FLOR. A che motivo vi ho da dare cento zecchini?

TIB. Io ho arrischiato il mio denaro. La pioggia non era vostra, si è trovato il padrone, ho dovuto restituirla, e voi mi siete debitore di cento zecchini.

FLOR. Chi v’ha detto, che deste via la pioggia che mi avete vinto? Ella era roba mia, e non si doveva dare senza di me.

TIB. Orsù meno ciarle, voi sapete la cosa com’è; ed io voglio i miei cento zecchini. O roba, o denaro.

FLOR. Come? Siamo noi alla strada?

TIB. Che strada? Sono un galantuomo, ho vinto, e voglio esser pagato.

FLOR. Contentatevi di quello che avete portato via.

TIB. Ho arrischiato il mio sangue. Se perdevo, pagavo. Ho vinto, mi avete dato una gioja che non è vostra; o pagatemi, o mi pagherò colle mie mani.

FLOR. Che prepotenza è questa? Così si tratta con gli uomini onorati?

TIB. Siete un truffatore.

FLOR. Voi siete un ladro.

TIB. A me ladro! Ah giuro al cielo, ti caverò il cuore. (mette mano alla spada)

FLOR. Ah traditore! coll’armi alla mano? (si difende colla spada)

TIB. O pagami coi denari, o mi pagherai col tuo sangue. (battendosi partono)

 

 

 


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