Carlo Goldoni
Il geloso avaro

ATTO SECONDO

SCENA NONA

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SCENA NONA

 

Donna Eufemia ed il Dottore.

 

DOTT. Sapete, figliuola mia, per qual cosa sono tornato da voi questa mattina?

EUF. Perché mai, signor padre? Ogni volta che vi vedo, mi consolate.

DOTT. Son tornato da voi, perché nell'andare a casa mi è stato raccontato di questo gran bacile pieno di cioccolata che è stato portato in vostra casa, in tempo che non vi era vostro marito, e mi è stato detto che in bottega dello speziale la gente si è messa a ridere, ed ha principiato a mormorare. Io non sapevo cosa fosse questo negozio. Son corso per vedere e per sentire. Ma poi Argentina mi ha raccontato il tutto, ed ho saputo quello che ha fatto il matto di vostro marito.

EUF. Per dirla, io non avrei voluto ch'egli prendesse il bacile.

DOTT. Perché non glielo avete detto? perché non glielo avete suggerito?

EUF. Gliel'ho detto io, ma...

DOTT. Se glielo aveste detto in buona maniera, forse lo avrebbe fatto; si vede che vi vuol bene e che fa stima di voi.

EUF. (Piange)

DOTT. Cosa vi è di nuovo? vi scorrono le lacrime dagli occhi? Forse non è vero che vostro marito vi voglia bene? Egli lo ha fatto confermare da voi medesima. L'avete pur detto alla mia presenza.

EUF. (Piange)

DOTT. Ah figliuola mia, voi piangete? Qui vi è del male. Avete avuto qualche disgusto? Vi ha fatto qualche cosa vostro marito? Parlate, confidate con me.

EUF. Ah signor padre, non posso più.

DOTT. Oh cielo! Qual novità è mai questa?

EUF. Non è cosa nuova ch'io peni, sarà cosa nuova che io parli. Mio marito son anni che mi tormenta; non mi lascia avere un momento di pace. È geloso senza motivo di esserlo: è sospettoso senza ragione. Non basta ch'io lo secondi, ch'io l'obbedisca, ch'io taccia. Pare ch'egli gioisca nel tormentarmi; pare ch'io sia la sua maggior nemica. Non parlo del poco cibo, non mi lagno del miserabile trattamento. Una veste mi basta, una vivanda mi sazia; ma oh Dio! più strapazzi che pane! E una miserabile vita che mi fa bramar di morire.

DOTT. Oh me infelice! Voi mi cavate le lacrime dal fondo del cuore. Cara figliuola mia, voi avete per consorte una tigre, e lo sopportate per sì lungo tempo? Vi ho ancor io consigliato a soffrirlo, finché ho creduto che la di lui cattivezza si potesse tollerare; ma ora che sento che si rende insoffribile e che siete tormentata in questa maniera, sono qua, Eufemia, son vostro padre, venite con me, voi starete con me. Fin che sono vivo, voi sarete padrona della mia casa e di tutto il mio cuore.

EUF. (Oimè! che ho fatto mai? Perduto ho in un punto tutto il merito della tolleranza? Impegnata a sostenere il decoro di mio marito, per sì lieve cagione l'averò io calpestato?) (da sé) Ah signor padre, compatite la mia debolezza. Noi donne abbiamo de' momenti inquieti, de' momenti funesti. Mi avete presa in un punto che mi sentiva oppressa, né saprei dire il perché. La vita che mi fa vivere mio marito, non è sì trista che possa ridurmi ad una violente risoluzione. Compatitemi; scordatevi delle mie doglianze; non mi credete, allorché io parlo senza pensare. Sì, mio marito mi ama; e se ora mi sgrida, è padrone di farlo, ed io meriterò che mi sgridi. L'ambizione talora mi eccita a desiderare quello ch'io non ho; ma finalmente quello che ho mi basta. Credetemi, or che vi parlo senza passione. Ponete in quiete l'animo vostro; il mio è calmato. Mi pento di quel che ho detto; arrossisco di me medesima; e queste lacrime che ora mi grondano dagli occhi, non sono effetti delle mie disgrazie, ma del mio giustissimo pentimento. (parte)

DOTT. Venite qui; sentitemi; vi credo e ci rimedierò. Infelice! (parte)

 

 


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