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LIS. Signora padrona. (l'alzano e la rimettono sulla sedia)
FUL. Ah! se non mi amasse... Ma oh cieli! potrebbe fingere? È perché fingere, se non mi amasse?
FLA. Ah, sorella mia, ve l'ho detto. Siete nemica di voi medesima.
FUL. Ah no, vivete; il cielo mi vuol infelice. Pazienza. Vi amerò da lontano, benché mia non sarete.
FLA. E perché non ha da esser vostra? (a Fulgenzio)
FUL. Perché ad altri si abbandonò per vendetta.
FLA. Volete dire, perché ha dato parola al conte Roberto? (a Fulgenzio)
FUL. Ah sì, fortunatissimo Conte.
FLA Fortunato voi vi potete chiamare, che aveste me in aiuto; fortunata Eugenia, che ha una sorella che l'ama. Il Conte fu da me illuminato. Seppe che lo faceva per astio, per capriccio, per disperazione. Non è sì pazzo a volersi nutrire una serpe nel seno; e lascia in libertà la fanciulla.
EUG. Oimè, dite il vero? (alzandosi con tenerezza a Flamminia)
FLA. Così è, sorella, Fulgenzio è vostro.
EUG. No, che non sarà mio.
FUL. Lo conoscete il torto che mi faceste?
FLA. Via, non parlate altro. (a Fulgenzio)
EUG. Lasciatelo dir, che ha ragione. (a Flamminia, con tenerezza)
FUL. Abbandonarmi per così poco! (ad Eugenia)
FLA. Ma via, dico. (a Fulgenzio)
EUG. Sì, insultatemi, che mi si conviene. Conosco l'amor grande che per me avete; so di non meritarlo. Usatemi carità, se vi aggrada; siatemi rigoroso, se il vostro cuor lo comporta; in ogni guisa mi duole d'avervi offeso, e vi domando perdono.
EUG. Sì, perdonatemi.