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Donna Lucrezia, don Ermanno, poi Florindo e Pantalone.
LUCR. Io l'ho sempre detto che Florindo è un giovane che ha del suo.
ERM. Ma i mille ducati di debito?
LUCR. Dei debiti ne hanno tutti. Bisogna vedere la cosa com'è.
FLOR. Venite qui, signore, se volete che ci aggiustiamo. (verso Pantalone)
PANT. Son qua, dove che la vol.
LUCR. Che cosa comanda il signor Pantalone?
PANT. Son qua per sto sior. El me vol strascinar per forza.
FLOR. Signori miei, giacché il signor Pantalone con una mia firma ha avuto l'ardire in presenza vostra di farmi quasi perdere la riputazione, son qui a soddisfarlo, e voglio parimenti in presenza vostra contargli i mille ducati che ho in questa borsa, per dire a lui che così non si tratta co' galantuomini, per dire a voi che così non si giudica sulle apparenze, sulle imposture, sulle calunnie. Sono un uomo di onore. Danari a me non ne mancano. Questi sono mille ducati, e questa è una cedola di ventimila scudi per costituire la contraddote a donna Laurina, la quale da voi mi è stata promessa e deve essere ad ogni costo mia sposa.
ERM. Dice bene il signor Florindo. Noi gliel'abbiamo promessa, e non abbiamo da mancar di parola.
LUCR. Quei mille ducati potrebbe darli a conto della contraddote. Il signor Pantalone può aspettare.
PANT. No, patrona; el m'ha fatto vegnir qua per averli, e li ho d'aver mi.
FLOR. Certamente questi si devono al signor Pantalone.
PANT. Incontremoli, se la se contenta. (a Florindo)
FLOR. Or ora; permettetemi che supplisca al mio dovere con lei.
PANT. (Ho sempre paura che el vento me li porta via). (da sé)