Carlo Goldoni
I malcontenti

ATTO TERZO

SCENA DICIASSETTESIMA

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SCENA DICIASSETTESIMA

 

Il signor Grisologo, il signor Ridolfo e Cricca dalla porta che s'apre; e detti.

 

CRI. Vengano per di qua, che non saranno veduti.

GRIS. Troppo tempo abbiamo perduto.

RID. E quel ch'è peggio, non si è fatto niente.

GERON. Dove, dove, signori miei?

GRIS. (Si cava il cappello e resta confuso)

RID. Servitor umilissimo.

CRI. (Il tempo non ha loro servito. Hanno fatto qualche danno all'armadio; ma non l'hanno aperto). (piano a Geronimo)

RID. Con licenza di lor signori. (vuol partire)

GERON. Favorisca trattenersi un momento.

GRIS. (Povero me! non so in che mondo mi sia). (da sé)

RID. Signore, se mi vedete uscire da quella stanza...

GERON. Lasciate parlare a me, signore. Quando toccherà a voi, lo farete. Signor Policastro, ecco il vostro degno figliuolo, di cui ho da farvi conoscere un'altra bella virtù. Sapete voi che cosa faceva egli entro di quella camera? Tentava di aprire il mio armadio per prendere il denaro; ed il degnissimo signor Ridolfo gli serviva di scorta.

POLIC. Io non so niente. Io non c'entro per niente.

RID. Io non l'ho consigliato a farlo...

GERON. Lo credo benissimo.

GRIS. Io finalmente voleva prendere...

GERON. Sì nipote carissimo, so che volete dirmi; prevedo le vostre oneste difese, e voglio io contro di me medesimo far per voi l'avvocato. Io finalmente (intendevate dirmi) non voleva prendere che roba mia. Il signore zio maneggia le entrate della casa, che tiene rigorosamente serrate. Noi non siamo padroni di niente. Se si vuol un divertimento, non si può avere; se si vuol andar in villa, non si può andare. Ed io vorrei andare in campagna con mia sorella, col mio signor padre; ed in mancanza d'assegnamenti, non faceva che prendere colle mie mani quello che col signor zio mi sarebbe stato barbaramente negato. Per farlo, non aveva coraggio io solo, ho pregato l'amico; l'amico, persuaso delle mie ragioni, mi ha assistito; ma siamo due galantuomini, due persone oneste, incapaci di prendere quello che non è nostro, incapaci di una furfanteria. Eh? dico bene? sono queste le difese vostre? quelle del signor Ridolfo? quelle del signor Policastro?

POLIC. Io non so niente. Non c'entro per niente, io.

. Oh, sentite ora come all'avvocato vostro risponde il mio. Finalmente non volevate prendere che roba vostra. Come sapete voi gl'interessi di questa casa, voi che col bell'esempio di vostro padre trascurate d'interessarvene, per non soccombere alla fatica di un cotal peso? Chi vi assicura, che le rendite annuali vostre bastino alle spese quotidiane della famiglia, onde possiate dir francamente che quegli avanzi sian vostri? No, che vostri non sono; poiché derivano essi dall'industria mia, da' miei traffichi particolari, e son frutti onorati de' miei sudori. Sono vostri, egli è vero, in quanto l'amor mio a vostro pro li destina; ma non per farne mal uso, non per convertirli vilmente in passatempi, in gozzoviglie, in villeggiature. Evvi una figliuola da collocare. Voi avete bisogno di un onorato impiego per mantenervi. È in necessità vostro padre di assicurarsi il pane della vecchiaia. Il mio scrigno è il vostro deposito; ma voi insidiandolo barbaramente, siete un figlio snaturato, un ingrato nipote, un nemico del vostro sangue medesimo. Il signor Ridolfo, persuaso delle vostre ragioni, vi prestava amorosa assistenza. Lo crederei fors'anche, se non sapessi di certo esser egli in grado di pretendere da voi il prezzo dell'amicizia, per rimediare ai disordini della pessima sua condotta. I mille scudi negati onoratamente dal zio, si procurano dal nipote. Non si consiglia a rubare, ma gli si tien mano perché lo faccia; si fomenta la gioventù, si scandalo ai più pusillanimi, si eccita col mal esempio, e poi si potrà dir francamente: siamo due galantuomini, siamo persone oneste, incapaci di commettere una furfanteria? Le persone onorate non antepongono alla propria riputazione il piacere, il chiasso, il divertimento. È un'azione onorata quest'ultima che fatta avete nella camera di un uomo che stenta per una famiglia non sua, che aumenta per il bene de' suoi nipoti, che ama i nipoti suoi, come se fossero di lui figliuoli? Vergognatevi. (a Grisologo) Vergognatevi. (a Ridolfo) Vergognatevi. (a Policastro) Il mio avvocato ha ragionato così.

POLIC. Vergognatevi a me pure? Come c'entro io?

GERON. Gli avvocati hanno dette le vostre e le mie ragioni. Sentite ora il giudice, che pronuncia la sua sentenza. Ma questo giudice, sapete voi chi egli sia, nipote mio? Consolatevi, egli è l'amore, non è lo sdegno. E buon per voi, signor Ridolfo imprudentissimo, incauto, buon per voi, che associato nel delitto di mio nipote, sarete a parte della sentenza dolcissima che gli destino. Sì, figlio, il mio amore per questa volta vi assolve. Non voglio perdervi, non voglio abbandonarvi per ora. Scuso un primo delitto; ma giurovi sull'onor mio, che punirei severamente il secondo. Ed il castigo che vi preparo, è il più fatale che avvenir vi potesse: è l'abbandono all'arbitrio di voi medesimo, alla tutela d'un miserabile genitore.

POLIC. Come c'entro io? Non so niente io.

GERON. Deh, movetevi a compassione di voi medesimo se conoscete che io non la meriti; se grato non volete essere ad uno zio che vi ama, che vi assiste, che vi benefica, siatelo alla provvidenza del cielo. Non la stancate, figliuolo mio, non l'irritate; che s'ella con voi si sdegna, ahimè! s'ella vi scorge ingrato, leverà a me il piacere che ho di soccorrervi, e malgrado le mie diligenze, sarete un miserabile; mendicherete quel pane che ora vi sembra amaro, perché vi vien dato con parsimonia da chi vi ama, da chi vi ama di cuore.

GRIS. Ah, signore zio, eccomi a' vostri piedi a domandarvi perdono.

RID. Per carità, signore, vi raccomando la mia riputazione.

POLIC. Caro fratello, non ci abbandonate. (piangendo forte)

 

 


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