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ATTO PRIMO
SCENA PRIMA Sala comune a pił appartamenti, nella locanda di Filippo. Lisetta e Filippo, poi un Servitore
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SCENA PRIMA
Sala comune a più appartamenti, nella locanda di Filippo.
Lisetta e Filippo, poi un Servitore
FIL. Non temete di niente, vostro padre è fuori di casa; se egli verrà, noi saremo avvertiti, e possiamo parlare con libertà.
LIS. Caro Filippo, non ho altro di bene che quei pochi momenti ch'io posso parlar con voi. Mio padre è un uomo stravagante, come sapete. Siamo a Parigi, siamo in una città dove vi è molto da divertirsi, ed io sono condannata a stare in casa, o a sortir con mio padre. Buona fortuna per me, che siamo venuti ad alloggiare nella vostra locanda, dove la vostra persona mi tiene luogo del più amabile, del più prezioso trattenimento.
FIL. Cara Lisetta, dal primo giorno che ho avuto il piacere di vedervi, ho concepito per voi quella stima che meritate. In un mese che ho la sorte di avervi nella mia locanda, ho avuto campo di meglio conoscere la vostra bontà; la stima è diventata passione, e già sapete che vi amo teneramente.
LIS. Siate certo, che ne siete ben corrisposto.
FIL. Chi sa? Mi lusingo ancora, che il nostro amore possa essere consolato. Vostro padre, per quello che voi mi dite, è un uomo che col commercio ha fatto qualche fortuna, ma io pure, grazie al cielo, mi trovo assai bene ne' miei affari; e circa alla nascita, la mia, per quel ch'io sento, non può niente fare ingiuria alla vostra.
LIS. Sì, è vero, i principii di mio padre sono stati al disotto della condizione in cui vi trovate: quando sono venuta al mondo, egli non era che un semplice servitore di un mercadante. Con un poco di attenzione agli affari, si è acquistato del merito, e il suo padrone lo ha impiegato nel suo negozio. Ha fatto qualche fortuna, non so come, e se lo so, non ardisco di dirlo. So che siamo passati sovente ad abitar da un paese all'altro, e che ultimamente abbiamo lasciato Londra in una maniera che non mi ha dato molto piacere. Siamo ora a Parigi; mio padre vuol maritarmi, ma si è fitta nel capo la melanconia di volere un genero di qualità.
FIL. Sarà difficile ch'ei lo trovi: non per il vostro merito, ma per la sua condizione.
LIS. Eh caro amico, i danari qualche volta acciecano anche le persone di qualche rango, ed io ho paura di essere sagrificata.
FIL. Sapete voi quanto egli vi destini di dote?
LIS. Non saprei dirlo precisamente, ma credo che non avrà difficoltà di arrivare a dieci o dodici mila scudi.
FIL. A Parigi una simile dote non è gran cosa; ed io, locandiere qual sono, se mi avessi a maritare senza passione, non lo farei per minore dote di questa.
LIS. Ecco un altro timore che m'inquieta. Dubito, s'ei qui non trova da maritarmi a suo genio, ch'ei non risolva di condurmi in Italia, e sarebbe per me il maggior dispiacere del mondo.
FIL. Non vedreste volentieri la patria di vostro padre? Sono italiano ancor io, e vi assicuro che il nostro paese non ha niente ad invidiare a qualunque altra parte del mondo.
LIS. Sì, è vero, vedrei volentieri l'Italia, ma...
FIL. Che volete dire? Spiegatevi.
LIS. Non la vedrei volentieri senza di voi.
FIL. Questa vostra dichiarazione mi obbliga, m'incanta, m'intenerisce.
SERV. Signor padrone, in questo punto è entrato il signor Pandolfo. (parte)
LIS. Ah, che mio padre non mi sorprenda. Mi ritiro nella mia camera.
LIS. Addio, addio; amatemi, che io vi amo. (entra nella sua camera)