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ANS. Oh, Italia, Italia! quando avrò il piacere di rivederti?
PAND. (Sortendo dalla camera viene parlando verso la porta da dove esce) Sciocca! stolida! imprudente! non meriti l'attenzione, la bontà che ha per te tuo padre. Ma la farò fare a mio modo.
ANS. (Vien gente, sarà bene ch'io mi ritiri in camera ad aspettar la carrozza). (s'incammina verso l'appartamento)
PAND. Non si poteva immaginare un espediente più bello per maritarla, ed ella si chiama offesa. Balorda, ignorante.
ANS. (Cosa vedo? Pandolfo? È egli sicuramente).
PAND. (Finalmente comando io).
ANS. Voi qui?
PAND. Voi a Parigi? Oh che piacere ch'io provo nel rivedervi! Lasciate che vi dia un abbraccio. (vuol abbracciarlo)
ANS. Oh, oh, Pandolfo! gradisco il vostro buon cuore, ma voi non mi avete mai abbracciato con simile confidenza.
PAND. È vero, ma ora non sono più quel ch'io ero una volta.
ANS. E che cosa siete poi diventato?
PAND. Con vostra buona grazia mercante. (con un poco d'orgoglio)
ANS. Bravo, mi consolo infinitamente con voi. Siete ricco?
PAND. Non sono ricchissimo, ma ho una figlia da maritare, alla quale potrò dare, senza incomodarmi, dodici mila scudi di dote.
ANS. E come avete fatto ad ammassare tutto questo danaro? I vostri principii sono stati meschini.
PAND. Vi dirò: io ho avuto l'onore di essere impiegato nel vostro negozio...
ANS. E prima nella mia cucina.
PAND. Non prendiamo le cose sì da lontano; quando mi sono licenziato da voi a Barcellona, io aveva messo da parte qualche danaro...
ANS. Danaro tutto bene acquistato? Avete voi alcun rimorso d'avermi un poco rubato?
PAND. Non m'interrompete. Lasciatemi continuare il filo del mio discorso. In sei anni ch'io sono stato al vostro servizio, ho appreso qualche cosa a negoziare, ho approfittato delle vostre lezioni...
ANS. E del mio danaro, non è egli vero?
PAND. Ma non m'interrompete, vi dico. (con un poco di collera) Sono andato a Cadice, poi sono passato a Lisbona, e di là mi sono trasportato in Inghilterra. Per dirvi la verità, in confidenza, per tutto ho avuto delle disgrazie, e a forza di disgrazie sono arrivato ad esser padrone di qualche cosa.
ANS. Amico, io non invidio niente la vostra fortuna. Anzi vi dirò, che di me è avvenuto tutto al contrario; la guerra ha interrotto il commercio, gli affari miei sono andati male. I creditori mi hanno pressato, ho pagato tutti, e per non fallire sono restato, posso dir, senza niente.
PAND. Signor Anselmo, permettetemi ch'io vi dica una cosa, con tutta quella sincerità e quel rispetto che ancora vi devo.
ANS. Parlate, che cosa mi vorreste voi dire?
PAND. Voi non avete mai saputo fare il negoziante.
ANS. E come potete voi dir di me questa cosa?
PAND. Scusatemi, siete troppo galantuomo.
ANS. Sì signore. Lo sono e mi pregio di esserlo. Amo meglio di aver rinunziato i miei beni, ed avermi conservato il buon nome. Ho dei crediti in Francia, procurerò di ricavarne quel che potrò, cercherò di dare stato alla mia figliuola, ed io mi ritirerò in Italia a vivere onoratamente, senza macchie, senza rimproveri, e senza rimorsi.
PAND. Passiamo ad un altro discorso. Avete qui con voi la vostra figliuola?
ANS. Sì signore, ella è qui con me, e siamo alloggiati in quell'appartamento.
PAND. Ed io in questo: tanto meglio, siamo vicini. Voglio andare a far il mio debito colla signora...
ANS. No, no, vi ringrazio. Non mancherà tempo. Ella è stanca dal viaggio, ed ha bisogno di riposare.
PAND. Volete voi venire a veder mia figlia?
ANS. La vedrò con più comodo, attendo una carrozza per andare a girare per la città; mi preme di veder subito qualcheduno.
PAND. Mia figlia e vostra figlia si tratteranno; staranno insieme, saranno amiche.
ANS. Sì sì, amiche come vi piace.
PAND. Ci avreste qualche difficoltà? Sono ancor io mercante.
ANS. Sì, un poco fallito, ma non vi è male.
PAND. Eh, se tutti quelli che hanno fallito...