Carlo Goldoni
Il medico olandese

ATTO PRIMO

SCENA TERZA

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SCENA TERZA

 

Mounsieur Guden, poi mounsieur Bainer, poi un servitore.

 

GUD.

Ah, che beltà non curo, non giovami virtute;

Mi occupa il solo, il tristo pensier di mia salute.

Tristo pensier finora, ch’ogni sventura avanza,

E in sì grand’uom soltanto mi resta una speranza.

BAI.

Signor... (salutandolo)

GUD.

Deh, soccorrete un che non spera invano (incontrandolo ansiosamente)

Uscir, vostra mercede, fuor di miseria...

BAI.

Piano.

Ehi, recate due sedie. (forte verso la scena)

GUD.

Signor, sono per me

Perigliosi i momenti.

BAI.

Il vostro polso. (chiede il polso a monsieur Guden)

GUD.

Oimè! (nel dargli il polso si turba)

BAI.

(Dopo averne sentito il polso) Ehi, chi è di ? Due sedie. (al servitore che viene)

GUD.

Vi supplico, signore,

Sentomi un tale affanno...

BAI.

Non abbiate timore.

Sedete.

GUD.

Ch’io vi esponga, signor, non isdegnate

Tutte le stravaganze di questo mal.

BAI.

Narrate.

GUD.

Or la decima luna sarà, s’io non m’inganno,

Il cuore un mi sento assalir da un affanno.

Dal cor in pochi istanti parvemi a poco a poco

Stendersi per le membra, e dilatarsi un foco.

Sentomi il capo acceso, tremo, mancar mi sento,

Più non mi reggo, e credo morire in quel momento.

Stendo al polso la mano; parmi più non sentirlo.

Corro, così tremante, fin dove non so dirlo.

Acqua, gridando, andava; chi mi soccorre? io spiro.

Recanmi alfin dell’acqua; alfin bevo, e respiro.

Ma che? quel di fatale l’epoca è sventurata

Di tai barbari assalti, ch’io provo alla giornata.

Ma la notte, la notte è il mio crudel tormento.

Quando la sera imbruna, s’accresce il mio spavento

Parmi che mi si stacchino le viscere dal petto;

Sei, sette volte almeno forza è balzar dal letto.

E se mi prende il sonno, ahi che dormir funesto!

Veggo leoni e demoni, e con tremor mi desto.

A tavola, al teatro, in un festino, al gioco,

Sentomi questa fiamma salire a poco a poco;

E funestar temendo altrui colla mia morte,

Mi forza un rio timore fuggir da quelle porte.

Niente mi consola, ogni piacer mi è odioso,

Son diventato agli altri e a me stesso noioso.

Ah voi, signor, porgete a tanto mal ristoro,

O questo non passa, ch’io mi consumo e moro.

BAI.

Altro a narrar vi resta?

GUD.

Son cento i miei malori,

Ma vi narrai per ora i sintomi peggiori.

Se male io mi spiegai, se il labbro mi tradì,

Ritornerò da capo.

BAI.

No, no, basta così.

V’intesi a sufficienza. Di qual paese siete?

GUD.

Soccorretemi prima; poi chi son lo saprete.

BAI.

Sì, vi soccorrerò; ma per un tal malore

Siate sicuro intanto, signor, che non si more.

GUD.

Come? Se in dieci mesi sento morirmi ogni ora?

BAI.

Moriste tante volte, e siete vivo ancora?

Son flati, son vapori, son convulsioni interne;

Son mali che spaventano chi teme, e non discerne.

Sentite il buon tabacco. (gli offre del tabacco)

GUD.

Signor, vedo che invano

Per consigliar con voi partii sì da lontano.

Ed il veder ch’io sono sì poco consolato,

Creder mi fa che il male sia grave e disperato.

BAI.

Voi, che fin qua veniste, pien di fantasmi rei,

Quale concetto avete finor de’ fatti miei?

GUD.

Signor, tanto vi stimo, che fin dal settentrione

Venni a cercar da voi rimedio e direzione.

Moscovia, Danimarca, la Prussia, la Sassonia,

La Svezia, il mio paese natio, ch’è la Polonia,

E Inghilterra, che pochi lodar suol per costume

Voi della medicarte suol appellare il nume.

Volai sino in Olanda per monti, fiumi e valli,

Lenti pareanmi al corso i rapidi cavalli,

E tosto che le mura ho di Leiden vedute,

Dissi fra me giulivo: ecco la mia salute.

BAI.

E il moto salutevole sì poco vi ha giovato?

GUD.

Ah, signor, il mio male, lo veggo, è disperato.

BAI.

No, cerchiam la cagione, che misero vi rende;

Questa non vien dal corpo, dal spirito dipende.

All’esame, all’esame.

GUD.

Ora mi consolate.

Fatemi le ricerche dall’arte praticate.

BAI.

Dite, signor Polacco, come si sta d’amori?

GUD.

Perché non domandate se ho sete, se ho dolori? (un poco mortificato)

BAI.

Non istudiai soltanto Ippocrate e Galeno.

Di medico son io filosofo non meno.

E di cento ammalati, ricorsi all’arte mia,

Ottanta ne guarisce buona filosofia.

All’esame, all’esame. È amor che vi tormenta?

GUD.

Signor, quella ch’io amava, miseramente è spenta.

BAI.

Quant’è che più non vive?

GUD.

La misera morì

Poco pria ch’io giungessi a delirar così.

BAI.

E a me pel vostro male dunque chiedete aita?

Volete per guarirvi ch’io la richiami in vita?

Giovine appassionato, capite or le ragioni

Fondate, ragionevoli, di mie interrogazioni?

GUD.

Ma, signor, il principio puol esser metafisico;

Ma il mal che ora m’affligge, è doloroso e fisico.

Si è tanto abituato, reso si è così forte,

Che adesso ogni momento minacciami la morte.

BAI.

Che morte? Che minaccie? Scacciate ogni timore;

Per questo mal, vi replico, al certo non si more.

Voi bramereste, il veggo, l’alta consolazione,

Che sopra il vostro male facessi una lezione

Coi termini dell’arte, con qualche anatomia,

Per render più confusa la vostra fantasia.

No, uditemi, signore: trattate il vostro male

Come un fanciullo armato, che l’inimico assale.

La spada può ferirvi, se gli esponete il petto,

Ma piccola difesa delude il giovanetto.

Tale dal mal potrete, volendo, esser oppresso,

Ma la difesa vostra è dentro di voi stesso.

Se la ragion si opponga al mal che vi fa guerra,

Ecco il bambino inerme, ecco la spada a terra.

GUD.

Ma signor...

BAI.

Ma signore, chi a me dal settentrione

Venuto è per consiglio, m’insulta, se si oppone.

GUD.

Qualche medicamento almen per consolarmi.

BAI.

Eh ben, se vi guarisco, quanto volete darmi?

GUD.

Signor, il sangue istesso darei per istar bene.

Ho lettere di cambio, so quel che far conviene.

BAI.

Saranno le cambiali, sarà il vostro danaro

Opportuno al rimedio, che darvi or mi preparo.

Uditemi: prendete nei borghi al rio vicini

Comodo albergo e lieto, in mezzo a bei giardini.

Una conversazione trovatevi gioconda.

Vivete cogli amici a tavola rotonda:

Giocate per piacere, non mai per rovinarvi,

Prendete un buon cavallo talor per sollazzarvi.

Anche un amore onesto, che vi trovaste io lodo;

Chiodo, i poeti dicono, scaccia dall’asse il chiodo.

Ecco il rimedio vostro. Sarà la mia mercede,

Che a’ miei buoni consigli abbiate a prestar fede.

Bainer da tai malati di profittar non cura;

Sincerità è il mio vanto, non vivo d’impostura.

Voi di me vi fidate, io sono un uomo onesto.

La malattia conosco, ed il rimedio è questo. (parte)

 

 

 


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