CAR.
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(Porta a madama Marianna una picciola rocca per
filare bavella, e si ritira in disparte, ponendosi anch’ella a sedere, lavorando
intorno a manichetti o cosa simile)
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ELI.
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Bello quel bavellino! (a madama Marianna)
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MAR.
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Lo crederete, amica?
Fra me e la cameriera, senza poi gran fatica,
Si è filato in un anno tanto bel bavellino
Per tessere un vestito.
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CAR.
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Certo riuscì bellino.
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ELI.
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E che piacer si prova, quando a portar s’arriva
Cosa che da un lavoro fatto da noi deriva.
Tutto quello che occorre per me di ricamato,
Tutto è dalle mie mani trapunto e disegnato.
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MAR.
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Voi disegnate ancora?
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ELI.
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Sì, madama, assai male.
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MAR.
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Oh madama, lo spirito in voi so quanto vale.
So che studiate assai, so che molto leggete.
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ELI.
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Sono un’ignorantella.
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MAR.
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No, no, si sa chi siete.
Madama Federica, sono calzette o guanti?
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FED.
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Son calzette, madama, ma si va poco innanti.
E poco anche ci bado; poiché di casa mia
A me sola han voluto lasciar l’economia;
Poco ne son capace, ma quel che posso, io fo.
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MAR.
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Una giovin di garbo siete, madama, il so.
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FED.
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Oh no, davver.
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MAR.
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Sì certo. Madama Giuseppina,
Quei tanti suoi gruppetti a cosa li destina?
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GIU.
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A un picciol fornimento per un andriè, madama;
Ma questo è un passatempo, lavorier non si chiama.
A casa i miei fratelli non mi fan stare in ozio;
Mi fan copiar le lettere di casa e del negozio.
E quando avrò imparato ben bene la scrittura,
Mi pagheranno, io spero, almen la mia fattura.
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MAR.
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Così pratiche in tutto le giovani diventano.
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GIU.
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Lo so che so far poco, ma in casa si contentano.
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MAR.
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Siete una maraviglia.
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GIU.
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Oh, cosa dite mai?
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MAR.
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Brava; le figlie savie non si lodano mai.
Lo senti, Carolina, che giovani son queste?
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CAR.
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Giovani virtuose e giovani modeste.
Io, che son forestiera, quando son qui arrivata,
Subito di tal cosa mi son maravigliata.
L’Olanda per le donne certo è una gran nazione;
Ma questo in lor deriva da buona educazione.
Questo non è paese, che spenda allegramente;
Ma per l’educazione non risparmia niente.
Piacemi assai quest’uso, che il genitor destina
I figli all’esercizio, cui la natura inclina;
E se un figliuolo maschio il discolo vuol fare,
Subito in una nave, a far giudizio in mare.
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GIU.
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Voi della nazion nostra buona opinione avete.
Ditemi, Carolina, di qual paese siete?
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CAR.
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Riflettendo, madama, al stil del mio paese,
Ho vergogna di dirlo. Ora sono olandese,
E in grazia ai buoni esempi della padrona amata,
In Leiden posso dire di essere rinata.
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MAR.
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Via, taci, Carolina; non mi far arrossire.
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CAR.
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Oh il vero, mia signora, certo lo voglio dire.
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MAR.
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Amiche, vorrei darvi qualche divertimento,
Proporzionato in parte al bel vostro talento.
Oggi in qualche maniera procurerò ingegnarmi,
Spero che a desinare starete ad onorarmi.
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ELI.
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Non so che dir, madama; le grazie accetterò.
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FED.
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A madama Marianna non si può dir di no.
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MAR.
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Madama vostra madre sarà contenta, io spero. (a
madama Giuseppina)
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GIU.
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Lo sa che da voi sono; non si prende pensiero.
Oggi non ci son lettere da registrar; si sa
Che anche per me ci vuole un dì di libertà.
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MAR.
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Oh davver, mi contenta sì bella compagnia.
Ora proprio mi sento il core in allegria.
Qualcheduna di voi racconti qualche cosa,
Qualche bel dubbio o qualche novelletta graziosa.
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ELI.
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Vo’ proporvi un enigma.
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MAR.
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Oh sì, madama, dite.
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FED.
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Ditelo, che ho piacere.
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GIU.
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Lo goderò.
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ELI.
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Sentite.
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CAR.
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Perdonate, madama, il mio grosso cervello:
Che vuol dire un enigma.
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ELI.
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Vuol dire indovinello.
«Nacquer gemelli al mondo da poveri parenti
Due figli di costume, di genio differenti:
Uno buono, un cattivo, e quando uniti sono,
Spesso fa bene il tristo, e fa del male il buono.
Muoiono tutti due, poi tutti due rinati,
Con quei che li alimentano, son per usanza ingrati;
Volete voi conoscerli? Van sempre ad uno ad uno;
Son tutti due per tutto, e non li vede alcuno».
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MAR.
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Oh, madama, è impossibile ch’io giunga ad ispiegarlo.
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FED.
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Io non l’ho inteso bene.
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ELI.
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Tornerò a replicarlo. (torna
a dire l’enigma)
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GIU.
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Tante cose contrarie confondono la mente.
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ELI.
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Se non fosse difficile, non valeria niente.
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MAR.
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Zitto, zitto, mi pare aver dato nel segno.
Sarebbero, per sorte, e l’amore e lo sdegno?
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ELI.
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No, madama; per altro ammiro che pensiate
Essere i due gemelli due cose inanimate.
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FED.
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Spiegatelo, madama.
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GIU.
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Via, fateci il favore.
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ELI.
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Sono, amiche carissime, la speranza e il timore.
Nacquer gemelli al mondo. Tosto che l’uom è
giunto
All’uso di ragione, teme e spera in un punto.
E nacquero gemelli il timor, la speranza,
Tosto che il mondo antico corruppe la baldanza.
Da poveri parenti. La speranza e il timore
Conoscono il bisogno per loro genitore;
E l’uom quantunque ricco, alle passion ricovero
Dando dal proprio seno, sempre è meschino e povero.
Due figli di costume, di genio differenti.
Si sa che la speranza volar ci fa contenti,
E che il timor procura sempre abbassar le piume;
Onde son differenti di genio e di costume.
Uno buono, un cattivo. Accorderà ogni cuore,
Che la speranza è buona, che pessimo è il timore;
Ma soggiunge l’enigma: e quando uniti sono,
Spesso fa bene il tristo, e fa del male il buono.
E vuol dir, dal timore siamo tenuti in freno,
E la speranza allarga agli appetiti il seno;
Onde procede poi, che più della speranza,
Il provvido timore ci tiene in vigilanza.
Muoiono tutti due. Questo si vede spesso:
Finisce la speranza, ed il timore anch’esso.
Poi tutti due rinati. Con ciò spiegar s’intende
Di timor, di speranza, le solite vicende.
Con quei che li alimentano, son per usanza ingrati.
Questo vuol dir, che gli uomini si trovano ingannati.
Dopo il timor taluno a trionfar si vede,
E dopo la speranza il piangere succede.
Volete voi conoscerli? Van sempre ad uno ad uno.
Sperar, temere a un tratto mai si è sentito alcuno.
Ora teme, ora spera, fan le passioni un gioco,
E quando una s’avanza, l’altra le cede il loco.
Son tutti due per tutto. Dove si troverà
Un uomo che non speri, un che timor non ha?
E non li vede alcuno. Si può per spiegazione
Dir che non son corporei, ma v’è un’altra ragione:
Che temendo e sperando ogni mortal s’affanna,
Ma non conosce il vero, perché l’amor l’inganna.
Ecco, spiegar l’enigma tentai, donna qual sono;
Se malamente il feci, domandovi perdono.
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MAR.
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Bello, bello davvero.
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FED.
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Bella composizione.
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GIU.
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Vo’ che me l’insegniate, ma colla spiegazione.
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ELI.
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Vi servirò, madama.
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CAR.
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Sinora sono stata,
Madama, ad ascoltarvi colla bocca incantata.
Me ne consolo tanto; lasciate che vi dia
Su questa mano un bacio.
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ELI.
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Oh no, figliuola mia. (la bacia in viso)
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CAR.
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Che umiltà, che dolcezza! oh, che trattar cortese!
Oh, dove son le donne tutte del mio paese?
Mi comanda? la servo. (verso la scena)
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MAR.
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Dimmi, chi ti ha chiamato? (a
Carolina)
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CAR.
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Con licenza, signore. (alle donne) Quel giovane
ammalato. (piano a Marianna)
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MAR.
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CAR.
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Sì, signora. (parte, e a suo tempo ritorna)
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MAR.
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(Infelice! merta miglior fortuna). (da sé)
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ELI.
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Via, diteci, madama, qualcosa di curioso. (a madama Marianna)
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MAR.
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Pensava in questo punto a un caso doloroso.
Un povero signore polacco di nazione,
Venuto da mio zio per la sua guarigione,
In età giovanile ha una melanconia
Sì tetra, che di peggio credo che non si dia.
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ELI.
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Monsieur Bainer che dice?
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MAR.
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Procura consolarlo.
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FED.
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Capperi! monsieur Bainer saprà ben risanarlo.
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CAR.
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Madama, poverino! vorrebbe un po’ venire. (piano a
madama Marianna)
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MAR.
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(Che dicesti?)
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CAR.
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(Nïente).
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MAR.
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(Non sai quel ch’hai da dire?
Siamo qui tra di noi. Non vorran soggezione).
Compatite. (alle donne)
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ELI.
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Servitevi.
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CAR.
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(Gliel’ha detto il padrone).
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MAR.
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(Mio zio?)
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CAR.
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(Così mi disse).
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MAR.
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(Farà per ricrearlo.
Nel stato in cui si trova, non vo’ mortificarlo).
Amiche, l’ammalato di cui parlammo adesso,
Vorria venir innanzi, se fossegli permesso.
Che dite? non è tale da recar soggezione.
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ELI.
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Io per me non mi oppongo.
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FED.
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Venga pure.
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GIU.
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È padrone.
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MAR.
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Digli che non si pratica; procura d’avvertirlo,
che in grazia del suo incomodo si fa per divertirlo.
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CAR.
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Gliel dirò, sì signora. (Proprio anch’io ci ho piacere.
Gli uomini appassionati non li posso vedere). (parte)
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MAR.
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È un forestier, si vede, assai civile, onesto.
Si può, ch’egli s’avanzi, permettergli per questo.
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