Carlo Goldoni
Il Moliere

ATTO PRIMO

SCENA SESTA

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SCENA SESTA

 

Moliere e Valerio.

 

MOL.

E ben, narrate, amico, come la cosa è andata.

VAL.

Il Re, pien di clemenza, la supplica ha accettata.

Fe’ stendere il decreto; indi mi disse ei stesso,

Che odiava sopra tutto d’ipocrisia l’eccesso.

È sua mente sovrana, che i perfidi impostori

Si vengano a specchiare ne’ loro propri errori;

E il mondo illuminato vegga la loro frode,

E diasi all’autor saggio, qual si convien, sua lode.

MOL.

Ah! questo foglio, amico, mi fa gioir non poco;

Avranno gl’inimici finito il loro gioco.

Gran cosa! a niun fo male, e son perseguitato;

Il pubblico m’insulta, e al pubblico ho giovato.

Di Francia era, il sapete, il comico teatro

In balia di persone nate sol per l’aratro.

Farse vedeansi solo, burlette all’improvviso,

Atte a muover soltanto di sciocca gente il riso.

E i cittadin più colti e il popolo gentile

L’ore perdean preziose in un piacervile:

Gl’istrioni più abietti venian d’altro paese

A ridersi di noi, godendo a nostre spese;

Fra i quali Scaramuccia, siccome tutti sanno,

Dodicimila lire si fe’ d’entrata l’anno;

E i nostri cittadini, con poco piacer loro,

Le sue buffonerie pagarno a peso d’oro.

Tratto dal genio innato e dal desio d’onore,

Al comico teatro died’io la mano e il cuore;

A riformar m’accinsi il pessimo costume,

E fur Plauto e Terenzio la mia guida, il mio lume.

L’applauso rammentate dell’opera mia prima;

Meritò lo Stordito d’ogn’ordine la stima;

E il Dispetto amoroso e le Preziose vane

Mi acquistarono a un tratto l’onor, la gloria, il pane.

E si sentì alla terza voce gridar sincera:

Molier, Molier, coraggio; questa è commedia vera.

VAL.

Per tutto ciò dovreste gioia sentir, non pena,

D’aver lasciato il Foro per la comica scena.

Coraggio, anch’io ripeto, coraggio.

MOL.

Sì, coraggio.

Mi ragion d’averlo il popol grato e saggio. (lo dice per ironia)

Quel tale Scaramuccia, di cui parlai poc’anzi,

Andato era a Firenze co’ suoi felici avanzi.

Lo maltrattaro i figli, lo bastonò sua moglie;

Ei lasciò lor suoi beni, per viver senza doglie;

E tornato a Parigi a la scena,

Le logge e la platea, ecco, di gente ha piena.

Il pubblico che avea gusto miglior provato,

Eccolo nuovamente al pessimo tornato.

E in premio a mie fatiche (perciò arrabbiato i’ sono)

Corrono a Scaramuccia, lascian me in abbandono.

VAL.

Per un uom qual voi siete, questo è pensier che vaglia?

Non vedete, signore, che quel foco è di paglia?

Non bastavi per voi che siansi dichiarati

E serbinsi costanti i saggi e i letterati?

Ah, questa gloria sola ogni disgusto avanza.

MOL.

Del pubblico m’affligge la facile incostanza.

VAL.

Il pubblico, il sapete, è un corpo grande assai,

Tutti membri perfetti non ha, non avrà mai.

MOL.

Orsù, andiamo a raccorre quanti faran rumori,

Per il cartello esposto, i garruli impostori.

VAL.

Questa commedia vostra ognun vedere aspetta.

MOL.

Che bel piacere, amico, è quel della vendetta!

Però vendetta tale, che il giusto non offenda,

E che utile a’ privati e al pubblico si renda.

E solo in questa guisa io soglio vendicarmi:

La verità e l’onore son le mie sole armi. (parte)

VAL.

Armi di lui ben degne, di lui ch’ebbe da’ numi

La forza di correggere i vizi e i rei costumi;

E il dolce mescolando alla bevanda amara,

Fa che l’uom si diletti, mentre virtute impara. (parte)

 



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