Carlo Goldoni
Pamela maritata

ATTO TERZO

SCENA SEDICESIMA   Milord Bonfil, monsieur Majer, poi miledi Daure, il cavaliere Ernold, poi milord Artur, Pamela, madama Jevre, e monsieur Longman

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SCENA SEDICESIMA

 

Milord Bonfil, monsieur Majer, poi miledi Daure, il cavaliere Ernold, poi milord Artur, Pamela, madama Jevre, e monsieur Longman

 

MAJ. Milord, siete voi nemico di vostra moglie?

BONF. L'amai teneramente, e l'amerei sempre più, se non avesse macchiato il cuore d'infedeltà.

MIL. Eccomi; che mi comandate?

BONF. Miledi, accomodatevi. Cavaliere, sedete. (siedono)

ERN. Di che cosa abbiamo noi da trattare? Quel signore chi è?

BONF. Questi è monsieur Majer, primo uffiziale della Segretaria di stato.

ERN. Majer, avete viaggiato?

MAJ. Non sono mai uscito da questo regno.

ERN. Male.

MAJ. E perché?

ERN. Perché un ministro deve sapere assai; e chi non ha viaggiato, non può saper niente.

MAJ. Alle proposizioni ridicole non rispondo.

ERN. Ah! il mondo è un gran libro.

PAM. Eccomi ai cenni vostri.

BONF. Sedete.

PAM. Obbedisco. (siede nell'ultimo luogo, presso a Bonfil)

JEV. Ha domandato me ancora?

BONF. Sì, trattenetevi.

LONG. Signore, è venuto milord Artur.

BONF. Che entri.

LONG. (Fa cenno che sia introdotto)

ART. Eseguisco le commissioni del Segretario di stato.

BONF. Favorite d'accomodarvi. (ad Artur)

ART. (Siede)

MAJ. Signori miei, la mia commissione m'incarica di dilucidare l'accusa di questa dama. (accennando Pamela)

PAM. Signore, sono calunniata; sono innocente.

MAJ. Ancora non vi permetto giustificarvi. (a Pamela)

ERN. Non prestate fede alle sue parole...

MAJ. Voi parlerete, quando vi toccherà di parlare. (ad Ernold) Milord, (a Bonfil) chi è la persona, cui sospettate complice con vostra moglie?

BONF. Milord Artur.

ART. Un cavaliere onorato...

MAJ. Contentatevi di tacere. (ad Artur) Quai fondamenti avete di crederlo? (a Bonfil)

BONF. Ne ho moltissimi.

MAJ. Additatemi il primo.

BONF. Furono trovati da solo a sola.

MAJ. Dove?

BONF. In questa camera.

MAJ. Il luogo non è ritirato. Una camera d'udienza non è sospetta. Chi li ha trovati? (a Bonfil)

BONF. Il cavaliere Ernold.

MAJ. Che dicevano fra di loro? (a Ernold)

ERN. Io non lo posso sapere. So che mi ha fatto fare mezz'ora di anticamera; so che non mi voleva ricevere, e che vedendomi entrare a suo malgrado, si sdegnò la dama, si adirò il cavaliere, e i loro sdegni sono indizi fortissimi di reità.

MAJ. Ve li può far credere tali l'impazienza dell'aspettare, la superbia di non essere bene accolto. Milord, che facevate voi con Pamela? (ad Artur)

ART. Tentavo di consolarla colla speranza di veder graziato il di lei genitore. Milord Bonfil non può sospettare della mia onestà. Ha egli bastanti prove della mia amicizia.

MIL. L'amicizia di milord Artur poteva essere interessata, aspirando al possesso di quella rara bellezza. (ironico)

MAJ. Nelle vostre espressioni si riconosce il veleno; tutti questi sospetti non istabiliscono un principio di semiprova. (a miledi)

BONF. Ve ne darò una io, se lo permettete, che basterà per convincere quella disleale. Compiacetevi di leggere questo foglio. (a Majer)

MAJ. (Prende la lettera, e legge piano)

MIL. (Mi pare che quel ministro sia inclinato assai per Pamela). (piano ad Ernold)

ERN. (Eh niente; ha che fare con me, ha che far con un viaggiatore). (piano a miledi)

MAJ. Miledi, in questo foglio si rinchiudono dei forti argomenti contro di voi. (a Pamela)

PAM. Spero non sarà difficile lo scioglimento.

MAJ. E chi può farlo?

PAM. Io medesima, se il permettete.

MAJ. Ecco l'accusa, difendetevi, se potete farlo. ( il foglio a Pamela)

PAM. Signore, vagliami la vostra autorità per poter parlare senza esser da veruno interrotta.

MAJ. Lo comando a tutti in nome del reale ministro.

MIL. (Pigliamoci questa seccatura).

ERN. (Già non farà niente).

PAM. Signore, a tutti è nota la mia fortuna. Si sa che di una povera serva son diventata padrona, che di rustica ch'io era creduta si è scoperta nobile la mia condizione, e che milord, che mi amava è divenuto il mio caro sposo. Si sa altresì, che quanto la mia creduta viltà eccitava in altri il dispetto, eccitò altrettanto la mia fortuna l'invidia; e che l'odio giuratomi da miledi Daure non si è che nascosto sotto le ceneri, per iscoppiare a tempo più crudelmente. Il cavaliere, che m'insultò da fanciulla, non ebbe riguardo a perseguitarmi da maritata. Avrei avuto la sua amicizia, se avessi condesceso alle scioccherie; la mia serietà lo ha sdegnato, ed il mal costume lo ha condotto a precipitare i sospetti. Mi trovò con milord Artur a ragionar di mio padre. Questo povero vecchio, sul punto di riacquistare la libertà, trova difficoltata la grazia. Io lo raccomando a milord Artur, egli mi promette la sua assistenza; deggio partir di Londra con mio marito; gliene do parte con un viglietto. Ecco la lettera che mi accusa, ecco il processo delle mie colpe, ecco il fondamento della mia reità, ma dirò meglio, ecco il fondamento della mia innocenza. Scrivo a milord Artur: Voi sapete ch'io lascio in Londra la miglior parte di me medesima. Perdonimi il caro sposo, se preferisco un altro amore all'amor coniugale. Mio padre mi diè la vita; egli è la miglior parte di me medesima. Sì, dice bene la lettera: E mi consola soltanto la vostra bontà, in cui unicamente confido. Non ho altri da confidare, che nel mio caro sposo e in milord Artur; se il primo viene meco in campagna, resta l'altro in Londra per favorire mio padre; Artur è il solo, in cui unicamente confido. Non mi spiego più chiaramente scrivendo, per non affidare alla carta il segreto. Il concerto di questa mane fu intorno alla sospirata grazia, che mi lusingò di ottenere. Desiderai che mi portasse la lieta nuova alla contea di Lincoln, e mi lusingai che l'amor del mio caro sposo avesse accolto con tenerezza l'apportatore della mia perfetta felicità. L'errore che in questo foglio ho commesso, è averlo scritto senza parteciparlo al mio sposo. Da ciò nacquero i suoi sospetti. Ciò diè fomento alla maldicenza e la combinazione degli accidenti mi fe' comparire in divisa di rea. Di quest'unica colpa mi confesso, mi pento, ed al mio caro sposo chiedo umilmente perdono. Deh, quell'anima bella non mi creda indegna della sua tenerezza; non faccia un sì gran torto alla purità di quella fede che gli ho giurata, e che gli serberò fin ch'io viva. Se sono indegna dell'amor suo, me lo ritolga a suo grado, mi privi ancor della vita, ma non del dolce nome di sposa. Questo carattere, che mi onora, è indelebile nel mio cuore; non ho demerito, che far lo possa arrossire d'avermelo un concesso. I numi mi assicurano della loro assistenza. I tribunali mi accertano della loro giustizia; deh mi consoli il mio caro sposo col primo amore, col liberale perdono, colla sua generosa pietà.

BONF. (Resta ammutolito, coprendosi il volto colle mani, e mostrando dell'agitazione)

ERN. (Questa perorazione è cosa degna del mio taccuino). (tira fuori il taccuino, e vi scrive sopra)

MIL. (Pagherei cento doppie a non mi ci esser trovata). (da sé)

JEV. (Se non si persuade, è peggio di un cane). (da sé)

MAJ. Signore, non dite niente? non siete ancor persuaso? (a Bonfil)

BONF. Ah! sono fuor di me stesso. Troppe immagini in una sola volta mi si affollano in mente. L'amore, la compassione, m'intenerisce. (accennando Pamela) L'ira contro questi importuni mi accende. (accennando miledi Daure ed il cavaliere) La presenza di Artur mi mortifica, e mi fa arrossire: ma oimè, quel che più mi agita, e mi confonde, e non mi fa sentir il piacere estremo della mia contentezza, è, cara sposa, il rimorso di avervi offesa, di avervi a torto perseguitata, e ingiustamente afflitta. No, l'ingrata mia diffidenza non merita l'amor vostro. Quanto siete voi innocente, altrettanto son io colpevole. Non merito da voi perdono, e non ardisco di domandarvelo.

PAM. Oh Dio; consorte, non parlate così, che mi fate morire. Scordatevi per carità dei vostri sospetti; io non mi ricorderò più delle mie afflizioni. Uno sguardo pietoso, un tenero abbraccio che voi mi diate, compensa tutte le pene sofferte, tutti gli spasimi che ho tollerati.

BONF. Ah sì, venite fra le mie braccia. Deh compatitemi. (stringendola al seno)

PAM. Deh amatemi. (piangendo)

LONG. E chi può far a meno di piangere?

MAJ. Milord, vi pare che il processo sia terminato?

BONF. Ah sì, ringraziate per me il reale ministro.

LONG. Se bisognassero testimoni, sono qua io.

JEV. L'onestà della mia padrona non ha bisogno di testimoni. Sono così contenta, che mi pare di essere morta e risuscitata.

MAJ. Che dicono gli accusatori? (verso miledi ed il cavaliere)

MIL. Ho ira contro di mio nipote, che mi ha fatto credere delle falsità.

ERN. Io sono arrabbiato contro di voi, che dei miei leggieri sospetti avete formato una sicurezza. (a miledi)

BONF. Cavaliere, miledi, mi farete piacer da qui innanzi di non frequentar la mia casa.

MIL. Ha ragion mio fratello. (ad Ernold)

ERN. Che importa a me della vostra casa? qui non si sente altro che Londra, Londra, e sempre Londra. Non la posso più sentir nominare. Sì, ho risolto in questo momento. Se comandate niente, domani parto. (s'alza)

BONF. Per dove?

ERN. Per l'America settentrionale. (parte)

MIL. Cognata, mi perdonate? (a Pamela)

PAM. Io non saprei conservar odio, se anche volessi.

BONF. Sì, cara Pamela, siete sempre più amabile, siete sempre più virtuosa. Venite fra le mie braccia; venite ad essere pienamente contenta.

PAM. Ah, signore, non posso dissimular la mia pena; mio padre mi sta sul cuore. Se non lo vedo, non son contenta; se non è salvo, non mi sperate tranquilla.

BONF. Majer, deh per amor del cielo...

MAJ. Non vi affliggete. Il conte d'Auspingh non è molto da voi lontano.

PAM. Oh cieli! dov'è mio padre?

MAJ. Venuto è meco per ordine del Segretario di stato. M'impose tenerlo occulto, per non confondere colla sua presenza l'importante affare, che felicemente si è consumato. Ordinate che s'introduca.

BONF. Dov'è mio suocero?

PAM. Dov'è mio padre?

 

 

 


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