LUI.
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Chi
provò mai tormento maggior di quel ch'io provo?
Dov'è
mai donna Placida? La cerco, e non la trovo.
Prima
di presentarmi di don Fernando al ciglio,
Desio
di donna Placida udire un buon consiglio.
Oimè,
donna Isabella? Che fa? pensa o riposa?
Mi priverà il destino di sì amabile sposa?
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ISA.
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Ah, non vi è più rimedio. Stelle, che vedo mai? (si
alza un poco, e scopre il Duca)
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LUI.
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Scusatemi
vi prego se ardito io mi avanzai.
Della governatrice l'orme ricerco invano.
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ISA.
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Ite da queste soglie, ite, signor, lontano.
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LUI.
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Tanto rigor non merta chi vi fu scelto in sposo.
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ISA.
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Nome soave un tempo, che or pronunciar non oso.
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LUI.
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(Oimè,
di sposo il nome turba il cuor d'Isabella?
Ah,
di donna Marianna sparsa è la ria novella.
Per
mia maggior sventura pubblico è già l'arcano.
Tento il martir nascoso dissimulare invano). (da sé)
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ISA.
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Deh per pietà, vi supplico, da queste porte andate.
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LUI.
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Dite almen la ragione.
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ISA.
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Parlar non mi obbligate.
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LUI.
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Sì,
v'intendo pur troppo, e la ragione è tale
Ch'è
al mio, come al cuor vostro, durissima e fatale.
Con mio dolore estremo tutto alfine è svelato.
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ISA.
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(Ah, pubblicò l'arcano il Cavaliere ingrato!) (da sé)
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LUI.
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Non
può celarsi il vero. Né io più lungamente
Volea
tale avventura coprire inutilmente.
L'arcano
a donna Placida sono a scoprir venuto.
Qual sollecito labbro mie labbra ha prevenuto?
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ISA.
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Il cavalier Ansaldo diedemi il colpo atroce.
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LUI.
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So
qual disegno ha spinto quell'animo feroce.
Egli
m'invidia un bene, che prometteami il cielo.
L'amor che per voi nutre, copre dell'empio il zelo,
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ISA.
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Finse
che a lui soltanto fosse palese il vero:
Tacerlo
in faccia al mondo promise il menzognero.
Or
che pubblica è resa la mia fatal sventura,
Duca, perché ad affliggermi venite a queste mura?
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LUI.
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Coperto
di rossore mirate il mio sembiante,
Ma
del destino ad onta, vi adorerò costante.
Se
una ragion mi vieta porgere a voi la mano,
Questo mio cuor, ch'è vostro, voi rinunziate invano.
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ISA.
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Signor,
lo stato vostro agl'imenei v'impegna;
Io son,
per mia sventura, di possedervi indegna.
Né
di vietare intendo, che altra sposa felice
Goda di quell'amore che a me goder non lice.
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LUI.
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Oh
ciel, con tanta pace, senza mostrarvi irata,
Alla
fè rinunziate che avvi il mio cuor giurata?
Questo,
deh perdonate se ardito è il mio sospetto,
Un
segno si potrebbe chiamar di poco affetto.
Virtude è in chi ben ama anche lo stesso orgoglio.
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ISA.
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Di chi lagnarmi io deggio, se mi condanna un foglio?
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LUI.
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Il
foglio è lacerato: quel che al cuor mio si oppone,
Sol nell'onor consiste.
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ISA.
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Duca, vi do ragione. (sospirando)
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LUI.
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Ecco vien don Fernando.
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ISA.
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Oh misera infelice!
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LUI.
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E a don Fernando unita vien la governatrice.
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ISA.
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Voglio fuggir.
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LUI.
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Restate. (la trattiene)
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ISA.
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Vederli io non ho cuore.
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LUI.
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Colpa voi non ne avete. Esser dee mio il rossore.
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