Carlo Goldoni
Il padre per amore

ATTO TERZO

SCENA TERZA   Il Duca don Luigi e detta

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SCENA TERZA

 

Il Duca don Luigi e detta.

 

LUI.

Chi provò mai tormento maggior di quel ch'io provo?

Dov'è mai donna Placida? La cerco, e non la trovo.

Prima di presentarmi di don Fernando al ciglio,

Desio di donna Placida udire un buon consiglio.

Oimè, donna Isabella? Che fa? pensa o riposa?

Mi priverà il destino di sì amabile sposa?

ISA.

Ah, non vi è più rimedio. Stelle, che vedo mai? (si alza un poco, e scopre il Duca)

LUI.

Scusatemi vi prego se ardito io mi avanzai.

Della governatrice l'orme ricerco invano.

ISA.

Ite da queste soglie, ite, signor, lontano.

LUI.

Tanto rigor non merta chi vi fu scelto in sposo.

ISA.

Nome soave un tempo, che or pronunciar non oso.

LUI.

(Oimè, di sposo il nome turba il cuor d'Isabella?

Ah, di donna Marianna sparsa è la ria novella.

Per mia maggior sventura pubblico è già l'arcano.

Tento il martir nascoso dissimulare invano). (da sé)

ISA.

Deh per pietà, vi supplico, da queste porte andate.

LUI.

Dite almen la ragione.

ISA.

Parlar non mi obbligate.

LUI.

Sì, v'intendo pur troppo, e la ragione è tale

Ch'è al mio, come al cuor vostro, durissima e fatale.

Con mio dolore estremo tutto alfine è svelato.

ISA.

(Ah, pubblicò l'arcano il Cavaliere ingrato!) (da sé)

LUI.

Non può celarsi il vero. Né io più lungamente

Volea tale avventura coprire inutilmente.

L'arcano a donna Placida sono a scoprir venuto.

Qual sollecito labbro mie labbra ha prevenuto?

ISA.

Il cavalier Ansaldo diedemi il colpo atroce.

LUI.

So qual disegno ha spinto quell'animo feroce.

Egli m'invidia un bene, che prometteami il cielo.

L'amor che per voi nutre, copre dell'empio il zelo,

ISA.

Finse che a lui soltanto fosse palese il vero:

Tacerlo in faccia al mondo promise il menzognero.

Or che pubblica è resa la mia fatal sventura,

Duca, perché ad affliggermi venite a queste mura?

LUI.

Coperto di rossore mirate il mio sembiante,

Ma del destino ad onta, vi adorerò costante.

Se una ragion mi vieta porgere a voi la mano,

Questo mio cuor, ch'è vostro, voi rinunziate invano.

ISA.

Signor, lo stato vostro agl'imenei v'impegna;

Io son, per mia sventura, di possedervi indegna.

Né di vietare intendo, che altra sposa felice

Goda di quell'amore che a me goder non lice.

LUI.

Oh ciel, con tanta pace, senza mostrarvi irata,

Alla rinunziate che avvi il mio cuor giurata?

Questo, deh perdonate se ardito è il mio sospetto,

Un segno si potrebbe chiamar di poco affetto.

Virtude è in chi ben ama anche lo stesso orgoglio.

ISA.

Di chi lagnarmi io deggio, se mi condanna un foglio?

LUI.

Il foglio è lacerato: quel che al cuor mio si oppone,

Sol nell'onor consiste.

ISA.

Duca, vi do ragione. (sospirando)

LUI.

Ecco vien don Fernando.

ISA.

Oh misera infelice!

LUI.

E a don Fernando unita vien la governatrice.

ISA.

Voglio fuggir.

LUI.

Restate. (la trattiene)

ISA.

Vederli io non ho cuore.

LUI.

Colpa voi non ne avete. Esser dee mio il rossore.

 

 

 


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