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IL QUARESIMALE IN EPILOGO DEL PADRE GIACOMO CATANEO
Oda recitata nel castello di Vipacco il giorno 4 ottobre 1726 a S. E. il sig. Francesco Conte de Lantieri
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Oda recitata nel castello di Vipacco il giorno 4 ottobre 1726
a S. E. il sig. Francesco Conte de Lantieri
Dell’Alpi Giulie ad una quercia appresso,
Passai, dormendo, a rimirar gli elisi;
Dopo un lungo pugnar, riposan poi.
mille e mille in maestoso seggio
Sicché tutto splendea quel bel contorno,
Ricordava di tutti il pregio, il vanto.
Lui miro attento, e riconosco ai segni
Ch’avea ancor su le piaghe il sangue fresco.
chiamandomi a sé, così mi disse:
Chi saggiamente visse
Vien dopo morte in queste eterne squadre,
Né con poca fatica
Si giunge al fine in questa parte aprica.
Il merto, il premio, il godimento eterno,
Che si cambia fra lor, sì ben spiegommi,
Palpitar di contento, e venir meno.
Un scanno vuoto in più sublime posto;
chi debba occuparlo un dì a lui chieggio;
Ed ei rispose allora:
Un ch’è nel mondo glorioso ancora.
Sarà questo il riposo
Di quell’eroe che colà giù governa
Col reo severo, e coll’umil pietoso;
Qui poserà colui,
Che tanto piace al nostro Rege e a nui.
Colui, nel di cui seno
Religione e Virtù vivon gemelle,
E l’altre due sorelle,
Gentilezza e Umiltà, non splendon meno;
È quel pregio maggior che meno apprezza.
Che da Cesare Augusto è tanto amato,
L’ha d’alti doni e di cesarei fregi;
Che fabricò la Providenza industre.
Soggiunse poscia il Venerabil Santo,
Ch’io affatico tanto
Ed ancor non intendi il parlar mio;
Ne ben conosci ancora
Chi sia colui che tutto il mondo onora.
E presso il rio che da gelato fonte
Ti ferma, e mira il delizioso piano;
Quel ch’è di tutti questi pregi adorno.
Un che vanta ben degno il nome mio;
E allor dirai che io
Dissi poco di lui, e se nel volto
Più vedrai, più saprai di quel ch’io dissi.
Un nipote d’eroi grandi e vetusti,
Sublime onor degli avi suoi primieri,
Di cui simil non si vedé giammai.
Di quel signor, che tanto piace a Dio,
Digli quello che ascolti, e quel che vedi.
Quel che vidi nel cielo, ed ascoltai.
Ma più di quel ch’in cielo
Ebbi udito, di voi, riveggio in voi;
Che coperta si sta dall’uman velo,
Quanto sarà maggiore
Di quel vago splendor che manda fuore?
Ché m’abbaglia le luci il vostro sole;
Salir tant’alto la mia rozza Clio;
E quasi già si spezza
La debil cetra a basso suono avvezza.
Chiedendo al troppo ardir grato perdono,
E se pur degno i’ sono
Su la destra gentil v’imprimo un baccio,
Colle voci del cuor, tutto me stesso.