Carlo Goldoni
Componimenti poetici

IL QUARESIMALE IN EPILOGO DEL PADRE GIACOMO CATANEO

Nel celebrarsi le nozze di SS. EE. il N. H. Ser Michiel Grimani et la N. D. pisana Giustinian Lolin Gennaro 1736

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Nel celebrarsi le nozze di SS. EE. il N. H. Ser Michiel Grimani

et la N. D. pisana Giustinian Lolin

Gennaro 1736

 

CANZONE

 

L’impeto che mi scuote, or non è mio;

Sento che troppo egli è di me maggiore.

D’un nodo eccelso allorché fama uscio,

Che la Gloria congiunse, e strinse Amore,

Stupido ammirator cogli altri anch’io,

Sentiimi empier di somma gioia il core:

Che benefici i grandi han de’ soggetti

Il fascino maggior sui grati affetti.

Tale in quel giorno io mi trovai la mente

Dal più lieto stupore ingombra e piena,

Che sol nell’altra aurora, e finalmente

Dal pigro sonno ebbe quiete appena.

Cambiarsi vidi al guardo mio repente,

Come dell’Adria in la più illustre scena,

E succeder gli oggetti al guardo intento

Di sempre nuovo insolito portento.

Sognai, ma vidi; e non so come, entrato

Trovaimi in vago ampio cortile. Intorno

Da superbo edificio è circondato,

Che mostra ben d’esser d’eroi soggiorno.

Qual insigne gigante al manco lato

Scolpito v’apparia, di lauro adorno,

Quel Cesare primier, dotto e guerriero,

Che di Roma e del mondo ebbe l’impero.

V’ha dirimpetto altro colosso ancora,

Del Cesare secondo il capitano :

Dall’antico scalpel vie più s’onora

Agrippa, il condottier d’Ottaviano.

Par di vederlo oppor dall’alta prora

Contro Antonio, poi Sesto, e mente, e mano.

Con tali idee sin dalle prime soglie

Di grandezza vetusta il tetto accoglie.

Quali poi l’alte stanze! in rammentarmi

Effigiata in piè la Dea più bella;

Fra gli altri un v’ha, ch’è lo stupor de’ marmi,

Che d’oracolo un tempo avea favella;

Ma tant’opre tacendo, il dover parmi

Dalla tribuna il rammentar di quella

Dopo mille e millanni intatta ancora;

Dal veglio distruttor tanto s’onora!

Sospeso d’alto èvvi di Giove il ratto,

Ben divina di Fidia opra famosa;

L’aquila il bel fanciul, che d’Ida ha tratto,

Stringendo ignudo, appar tutta amorosa;

E come il porti a volo in sì bell’atto,

Senza ferirlo mai l’ugna ritrosa;

Parea quindi partirsi, e restar scritto

Che al Giove Adriaco in don facea tragitto.

Io m’inoltrai, come se fossi alato

Con lo spirto leggier da me diviso;

in loco celeste, e circondato

Fra Dive e Numi il mio bel Nume assiso:

Le sfere ha intorno, onde s’aggira il Fato;

E al piè l’Oblio, ch’era il Pitone anciso;

Ed echeggiar s’udia: Questa è la reggia,

Che all’immortalità d’Eroi festeggia.

Dal trono allora il portator del die,

Che della cetra il primo onor sostiene,

Or, disse, a voi care Pierie mie,

Copiabella il celebrar conviene:

E meco grate unir vostre armonie,

Che dello sposo son l’illustri scene;

Dove i premi maggiori, e i maggiori vanti,

V’ebbero i carmi, e danze, e suoni, e canti.

Oh d’alte due sorgenti eletti fiumi,

Or che unite n’andran vostre acque chiare,

Quale per vie sgombre da tronchi e durai,

V’accoglierà più generoso il mare!

Che bell’impegno fia degli astri, e Numi,

All’acque vostre eternità serbare!

Io stesso stenderò l’alto sorgente,

Che meco splenda ancor nell’Oriente,

Nell’Oriente, al pio Buglione a canto,

Primo piantò la riverita insegna

Quel Grimani che addito, e n’ebbe il vanto,

Ch’ella nel bianco-scudo ancor si segna.

Mirate a quanti nel purpureo manto

L’Adria le cure sue più grandi impegna,

D’Antonio le conquiste, ed accusato,

Qual trionfa innocente, e coronato.

Di tanti duci e porporati eroi

Celebrar si potria l’illustre gloria,

Di cui serbarsi già conviene a voi

I nomi eterni e l’immortal memoria.

Non si pena in cercar de’ merti suoi,

Ché n’abbonda così la piena istoria

De’ pregi lor, che bel cantar felice,

Se dice assai chi ‘l molto più non dice.

Ma se vedeste poi lo sposo, in esso

Del mio fulgor vi scorgereste il raggio;

E un non so che di maestoso impresso,

Che fa dal volto mio nel suo passaggio;

L’aria grande, e gentil; sempre lo stesso;

Umano, dolce, e generoso, e saggio;

Perch’ognun resti avvinto a’ pregi sui,

Basta vederlo, e favellar con lui.

Mirate poi quell’altra inclita schiera;

Quindi uscì della sposa il bel germoglio.

Fama è, che dove ancor Bisanto impera,

Zustiniano, quel, tenesse il soglio;

Che avversa a’ figli suoi sorte guerriera

Sofferir di lasciarlo il rio cordoglio;

 Che ne’ Veneti lidi a quel rimoti

V’ebbero esiglio, e molti poi nipoti.

Al bel desio di ripigliar l’impero

Col sommo Duce, eccoli tutti accinti.

Entra ognun nella mischia ardito e fiero;

Ma allora non bastò che fosser vinti;

Il Fato s’opponea, che più severo

Tutti li rese in quell’impegno estinti.

Fu del Duce e dell’Adria il maggior duolo,

Che del gran germe non restasse un solo.

Venezia ancor vanta i suoi Fabi in questi,

Che perir tutti in roman campo un giorno.

Restava un sol ne’ chiostri in sacre vesti

Del sangue illustre, e de’ tre voti adorno.

Ottien che il buon Pastore il cenno presti.

Quello, poich’ebbe figli, al pio soggiorno?

Si rese. Di sua prole al gran disegno

V’ebbero l’Adria, il Ciel, cotanto impegno.

Quanti negli ostri il patrio onor ne conta,

Quanti genti nemiche han vinte e dome!

Lorenzo il Divo; e della Parca in onta

L’ampie famiglie propagate; e come

Col mitrato Lolino alfin congionta,

Questa n’ereditò fortune e nome.

L’ultimo d’una stirpe, e ch’altra appella

Col nome suo, par che s’eterni in quella.

Ma della sposa o genitor felice,

A cui prolebella il Ciel concesse,

Ne’ figli suoi risorgerai Fenice,

Ché fiano in lor tue chiare doti impresse.

Te saggio suo l’Adriasaggia dice:

Che i gran consigli suoi tua mente espresse.

Te stringo al seno, e tale anch’io ti dico :

Di me, de’ saggi, e delle muse amico.

Dunque del pari unite almebelle

L’onor di tanti il Cielo in voi diffonda;

Splendano fauste ognor l’amiche stelle,

L’età si stenda, e ‘l lungo amor risponda.

Escan da voi ben degne alme novelle,

Che succedano poi qual onda all’onda.

disse, e il sogno mio col sonno sparve;

Sorsi, e vergai le fatidiche larve.

 

 

SONETTO

 

Spezza l’arco, Cupido, e la faretra

Appendi pur della gran Madre al tempio;

Facesti un colpo, il di cui raro essempio

Scritto verrà da mille destre in pietra.

E sappia ognun, che tua pietade impetra,

Che Amor non è sempre fanciullo ed empio;

Che ferisce tal volta, e non fa scempio;

Ma ch’alma in van dal suo poter s’arretra.

Indi all’Adria Regina, e al glorioso

Popolo suo recando eterna speme,

Or più che mai t’adoreran qual Nume.

 Indi formando il bel Nodo amoroso

Fra Pisana e Michele unisti assieme

Sangue, mente, beltà, grazia, e costume.

 

 


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