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SONETTI SACRI
LA PACE FRA AMORE ED IMENEO Canto epitalamico consacrato alla N. D. Andriana Dolfin Bonfadini, zia dello sposo, e pronuba di tali sponsali
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Canto epitalamico consacrato alla N. D.
zia dello sposo, e pronuba di tali sponsali
I
Stava la bella Dea che in Cipro ha il regno,
Il roseo fren delle colombe al petto
Di sua mano adattando. (Ardea di sdegno
Nel vederla partir Vulcan negletto.)
Già saliva sul carro, e dato il segno,
Uscir volea dal suo felice tetto:
Ma tanti gridi, e tanti pianti intese,
Che il fren depose, annodò il carro, e scese.
II
Dietro al suon delle voci il passo move,
Or ratto, or lento, or sta in un piè sospesa;
Ascolta, osserva chi li lagna, e dove,
Proponendo recar tema, o difesa.
Queste voci, dicea, non mi son nuove:
Nuovo il loco non m’è della contesa:
Là posa Amor dalle fatiche oppresso,
E quel che grida, e quel che piagne, è desso.
III
Onde al sito sospetto addrizza intanto
Il piede e il guardo, e colà giugne a volo.
Ma qual restò nel rimirar di pianto
Bagnato, e di sudore, il verde suolo!
Qual fu di lei la meraviglia! ahi quanto
Del materno suo cor l’estremo duolo!
Amore ed Imeneo sono i rivali:
Questo armato di foco, e quel de’ strali.
IV
Figli, figli, sciamò la Dea pietosa,
Arrestatevi, o figli, io vel comando.
Qual nuova fra di voi cagione ascosa
L’ire troppo funeste andò destando?
Tenera del mio sen prole amorosa,
Quando sarete men fanciulli? ah quando?
Deh cessino fra voi le gare ultrici:
Io vi voglio compagni, e non nemici.
V
All’aspetto materno ognun di loro
S’arrestò, s’ammutì. La madre amante
Baciolli entrambi, e con i bei crin d’oro
Terse il molle sudor dal lor sembiante.
Indi: Prendete, figli miei, ristoro,
Disse, e all’ombra sediam di queste piante.
Poi narrarmi ciascun di voi s’impegni
La funesta cagion de’ vostri sdegni.
VI
Stava Imeneo per aprir bocca. Amore
Se ne avvide, e il prevenne: Ah madre, ei disse,
Tu punisci il germano; egli è l’autore,
Per la superbia sua, di tante risse;
Temerario costui dell’altrui core
Senza l’arbitrio mio dispor prefisse;
Egli, senza di me, congiunse tanti
Sventurati consorti, e non amanti.
VII
Distrugger tenta il mio soave impero;
Solo brama regnar, ma da tiranno;
Pur che trionfi, questo Nume altero
Non cura dell’altrui miseria e danno.
Ei strascina all’altar barbaro e fiero
Le vittime con forza, o con inganno,
E son gl’auspici al sacrificio indegno
L’avarizia talor, talor l’impegno.
VIII
Quindi il volgo ignorante in un confonde
D’Imeneo le rapine, e i doni miei.
Per lui da me l’uomo talor si asconde,
Temendo i strazi scelerati e rei.
Madre, a queste di Cipro amene sponde
Quante palme di più recate avrei,
Se non avesse il tuo men grato figlio
Lavorato il mio danno e il mio periglio.
IX
Volea più dir, ma nol soffrì tacendo
L’accusato german: Madre, è un mendace,
Disse, è un perfido Amor. Io non contendo
Sovra un trono con lui regnar in pace.
Il mio dominio oltre al confin non stendo;
A me d’Amor la compagnia non spiace.
Egli, madre, è il fellone; Amore è il reo,
Che vuol solo regnar, ch’odia Imeneo.
X
Avvezzo solo a procurar rapine,
Di me si scorda, non mi cura, o fugge.
Le sante d’onestà leggi divine
Forsennato garzon tutte distrugge.
L’anime il traditor rende meschine;
Fa che l’arte del falso il vero adugge.
Egli accende i mortai de’ folli ardori,
E all’onesto Imeneo rapisce i cori.
XI
Ei che tutto il valor posto ha nell’arte,
Solo facili imprese a sé procura.
Rado si ferma in solitaria parte,
Dove più l’onestà vive sicura.
Va tra libere genti; ivi comparte
I dardi, i lacci; ivi promette, e fura.
Me guidar all’imprese Amor non vuole,
E poi di me quel mentitor si duole.
XII
Se mi usurpa l’audace i cuori amanti,
Madre, chi resterà sotto al mio impero?
Strano non sarà poi, che tanti e tanti
Il giogo d’Imeneo chiamin severo.
Ah se il tristo german, che hai quivi innanti,
Fosse meco men crudo, e più sincero,
Non vi sarebbe fra mortali un cuore
Che ne odiasse, e che fuggisse Amore.
XIII
Sai perché, disse Amor, son tuo nemico,
Perché fuggo venir teco all’imprese?
Perché il semplice mio costume antico
Certe leggi osservar mai non apprese.
Io della libertà fui sempre amico;
Schiavo del suo voler te il mondo rese.
Io cogl’amanti uso promesse e doni;
Tu col comando e col rigor ragioni.
XIV
Se il rigor, se il comando a me fan d’uopo,
È, soggiunse Imeneo, per tua cagione.
Io mi prevalsi di quest’arte dopo
Che fu accesa fra noi la ria tenzone.
Violenza però non è mio scopo;
Se tu meco non sei, meco ho ragione.
Persuado, convinco, alfine accendo.
Gl’inimici talora amanti io rendo.
XV
Odi, madre, il superbo, Amor riprese,
Odi, come s’arroga i merti miei.
Talor la mia pietade amanti rese
Li congiunti da lui con modi rei.
Deh cessin fra di voi !’alte contese,
Disse Venere, alfin. Tolgan gli Dei,
Che Amore ed Imeneo fosser nemici.
Ah sariano i mortai troppo infelici!
XVI
Non più gare fra voi; non più, miei figli;
Non mi fate languir. Voglio vedervi
Amar l’un l’altro, e serenati i cigli,
Deponer nel mio sen gl’odi protervi.
Madre, disse Imeneo, de’ tuoi consigli
Fa che meglio la legge Amor osservi.
Soggiugne Amore: Il tuo piacer mi cale;
Ma rispetto vogl’io dal mio rivale.
XVII
Toglie ad uno di man l’irata face,
Toglie all’altro lo stral Venere allora.
Prende entrambi per man, li guida, e tace,
Ché il suo pensier non vuol scoprirgli ancora.
Giugne là, dove affumicata giace
La fucina di lui, ch’ella innamora.
Quando vide Vulcano i bei crin d’oro,
Andolle incontro, abbandonò il lavoro.
XVIII
Disse la bella Dea: Fido consorte,
D’uopo appunto ho di te. Va tosto; un dardo
Fammi tu di tua man pungente e forte,
Ma dolce insieme, e nel ferir non tardo.
Indi una face tal vuò che mi porte,
Cui resister non vaglia umano sguardo.
Dardo, onde Amor grandi conquiste ottenga.
Face, che ad Imeneo mai non si spenga.
XIX
Chinò la crespa fronte il vecchio amante,
E ad obbedir la donna sua si accinse.
Scelse il ferro migliore, e in un istante
Dardo fe’, che in fortezza ogn’altro vinse.
Del foco poi, che lavorò al Tonante
Il fulmine divin, le pure strinse
Sacre fiamme in un cerchio; e vaghe e preste
Alla Diva recò l’opre richieste.
Ella accetta il bel dono; indi lo strale
Rende a Cupido, ad Imeneo la face.
Poscia il carro discioglie, e su vi sale
Coi figli, e frena il lor costume audace.
Alle colombe sue fa spiegar l’ale,
Di più nobil desio fatta seguace.
Passa le vie del cielo, alfine arriva,
Dove siede del mar l’Adriaca Diva.
Là nel Regio Canal1 fermato il volo,
Tosto la bella Dea dal carro scende;
Calca col piede il prodigioso suolo
Cui rispetta Nettuno, e non offende.
Già rosseggiava in Oriente il polo
Pe ‘l ritorno di lui, che il giorno rende,
Quando Venere entrò co’ figli intorno
D’una nobil matrona entro al soggiorno.
Posava Andriana al caro Sposo appresso,
Ed in dolce sopor chiudeva i lumi.
Ciprigna la destò, le dié un amplesso;
Indi a lei presentò gl’alati Numi.
Donna, le disse, onor del nostro sesso,
Di virtù piena e nobili costumi,
Concedi per dar fine ai loro sdegni,
Ch’uno e l’altro mio figlio a te consegni.
Amore ed Imeneo nacquer germani.
Visser compagni, e furo un tempo amici;
Indi per colpa de’ mortali insani
Divennero fra lor fieri nemici.
Io sedai solo i Ior contrasti vani;
Non tolsi il seme delle gare ultrici:
Tu far lo puoi; tu; nel cui nobil cuore
Unito sempre ad Imeneo fu Amore.
Deh lor rammenta qual soave modo
Tennero uniti nel ferirti il petto:
Come Amore formò l’illustre nodo,
Come accese Imeneo l’ardente affetto.
Come serbasti il cuor costante e sodo
A lui che il Ciel t’ha per compagno eletto,
Come avesti il tuo letto indi fecondo
Di due figli, per cui va lieto il mondo.
Indi, se tanto d’impetrar mi lice
Dal tuo bel cor magnanimo e cortese,
La Genitrice sua rendi felice,
Guidando i figli a gloriose imprese.
Tanto Venere fa, cotanto dice,
Che l’illustre matrona alfin si arrese.
Parte lieta la Dea, lasciando i figli
Alla scorta fedel de’ suoi consigli.
L’arbitra degli Dei lascia le piume,
Allo sposo fedel dicendo addio.
Indi s’adorna qual è il suo costume,
Modesta sì, ma tutta grazia e brio.
Seguite, disse all’uno e all’altro Nume,
Con il tenero piede il passo mio;
Venite pur; io guiderovvi dove
Far voi potrete gloriose prove.
E là guidolli, ove in sacrato chiostro
Donzelletta gentil stava rinchiusa:
Quella, disse agli Dei, ch’io là vi mostro,
Alle fiamme d’amore ancor non usa,
Quella è degna del primo impegno vostro.
In lei tanta del ciel grazia è diffusa
Di sangue, di virtù, fortuna, e onore,
Di beltà di sembiante, e più di core.
Figlia è colei di genitori egregi,
Di questo Adriaco ciel splendenti stelle.
Nuovo lustro di gloria, e nuovi fregi,
La sacra del gran Zio2 porpora dielle.
Tutte umili però fra tanti pregi
Si sdegneria, se mi sentisse i tanti
Spiegar di sua virtude eccelsi vanti.
L’intollerante Amor, l’arco già teso,
Volea ferir, volea scoccar lo strale:
Ma la Donna gentile, Amor ripreso :
Lascia, disse, o garzon, l’arco fatale.
Non piegherai quel cor, se teco acceso
Non l’abbia d’Imeneo fiamma vitale:
E sai pur, ch’Imeneo fiamme non presta,
Se un reciproco amor pria non le desta.
Vedi là quel garzon, che in età verde
Dell’età più matura ama i pensieri?
Quello, che in ozio vile i dì non perde,
Dietro studi fallaci e lusinghieri:
Quello, nel di cui sen fia che rinverde
L’eccelso onor degl’avi suoi primieri?
Lodovico ravvisi? il Vidimano,
Gloria di questo cielo, e del Germano?
Dacché gl’avoli suoi l’illustre pianta
Innestaro su queste Adriache sponde3,
La Regina del mar si pregia e vanta
Queste unir a’ suoi lauri eccelse fronde.
Ella accrebbe per lor di gloria tanta,
Esse venner per lei vie più feconde.
Qual madre ai figli eroi donò se stessa;
Molto i figli però donaro ad essa.
L’onde d’Adria non sol, ma il Tebro augusto
E la Drava4 tortuosa il suo gran nome
Apprese a venerar fin dal vetusto
Tempo felice, e loro ornar le chiome.
David Roma mirò di palme onusto
Di lei portar le militari some5.
Vestì porpora sacra il suo germano6:
Figli di genitor, signor sovrano7.
Di que’ primi parenti illustri tanto
Germe degno è l’Eroe, ch’ho a voi descritto;
D’essi però più glorioso, quanto
Serba sovra d’ogn’altro animo invitto.
Che ve ne par? Non staria bene accanto
Della Donna gentil da voi trafitto?
Tosto accendi, Imeneo, ferisci, Amore,
Di Lodovico e di Quintilia il core.
Lo disse appena. Impazienti i Numi
S’accinser tosto alla sublime impresa.
Volse il garzone alla donzella i lumi,
E di lei si sentì l’anima accesa.
Ella di santi, angelici costumi,
Ad opre solo di pietade intesa,
Alza gl’occhi tremanti a lui forzata,
E si sente d’amor l’alma piagata.
Se ne avvide la Donna eccelsa e grande,
Ch’era l’opra de’ Numi allor compita.
Mira i sguardi furtivi, e quanto spande
Foco dagl’occhi, che l’interno addita.
Cauta parla ad entrambi: alle domande
Lui risponde languente; ella smarrita.
Dimmi (chiede al garzon) colei ti piace?
Egli la guarda, indi sospira, e tace.
Rivolta poscia alla donzella umile:
Il bel nome, le disse, ami di sposa?
Gl’occhi abbassò la vergine gentile,
Mostrando quel che palesar non osa.
Finalmente l’Eroe cangia lo stile,
La sua bella divien meno ritrosa:
Ambi d’eguale ardor l’anima tocca,
Si lasciaro un bel si cader di bocca.
Ecco un’opra d’Amore e d’Imeneo
Per terror de’ nemici a fin condotta.
Ecco ciò che operar l’arte poteo
Di donna più ch’ogn’altra illustre e dotta.
Ecco estinto quell’odio iniquo e reo,
Che la quiete del mondo avea interrotta.
Venere lieta il mira, e sen compiace:
Amore ed Imeneo tornaro in pace.