Carlo Goldoni
Componimenti poetici

POESIE IN LINGUA E IN DIALETTO DEL PERIODO VENEZIANO (1748 - 1762)

ALL’ILLUSTRISSIMO SIG. DOTTOR MATTEO FORESTI MEDICO FISICO Ottave per il molto revererendo Padre Angelo Pastrovicchi romano, minor conventuale.

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ALL’ILLUSTRISSIMO SIG. DOTTOR MATTEO FORESTI

MEDICO FISICO

Ottave per il molto revererendo Padre Angelo Pastrovicchi

romano, minor conventuale.

 

No: dissi a tanti che a me versi han chiesti

Per oratori, monache o sponsali;

E dissi: No, per que’ motivi onesti

Che il mondo sa quanti in me sieno, e quali;

Ma dir nol posso a voi, saggio Foresti,

Per quant’amo spirar l’aure vitali;

A voi nol posso dir, ché in vostra mano

Sta il farmi viver lungamente, e sano.

S’io per questo terrò più dell’usato

Il fragil arco della mente teso,

Da voi sarammi farmaco prestato

Che il capo serbi da disgrazie illeso;

Come faceste già per lo passato,

Allor ch’i fui dall’ipocondria preso,

Con apprensioni vigorose e strane

Che il mondo chiama volgarmente rane.

Oltre di che, medico tal non siete

Che per necessità solo si onori;

Ché congiunta al saper voi possedete

L’arte gentil d’incatenare i cuori:

Coll’impostura inimicizia avete,

L’interesse non forma i vostri ardori,

Impegnato pel grande e pel mendico,

Del vero amante, e degli amici amico.

Cantisi dunque, e sia de’ carmi nostri

Sacro oratore il nobile argomento;

Onde lui per esempio altrui si mostri

D’alme smarrite alla salute intento.

Ma come sia, che i miei profani inchiostri

Cambino di natura e di talento?

Contro i vizi gridare anch’io m’avviso,

Ma il pianto ei desta, e da me desto è il riso.

Pur v’è talun che avvicinar non teme

L’arti disgiunte, per lo scopo almeno

Di sparger quinci di virtude il seme,

E dei vizi scoprir quindi il veleno.

Il piacere, il terror congiunti insieme

Recan per tutto alla licenza il freno.

Quel che più mi spaventa, è la distanza

Di sua virtute, e della mia ignoranza.

Ma questa non può far ch’io non comprenda

La forza in lui delle parole sante,

Ché la predicazione è tal faccenda

Ch’ave a intendere il dotto e l’ignorante.

Ne produr può la procacciata emenda

Chi troppo s’erge dal Vangel distante;

Ché nel giardin dal Redentor costrutto

Gli altri son fiori, ed il Vangelo è il frutto.

Lice per altro al buon cultor sagace

Ornar di fiori anche il eletto,

E più invita a gustar pianta ferace,

Quando all’utile unisce anche il diletto.

Tale il sacro orator giova, se piace,

Ora il cuore movendo, or l’intelletto;

Basta sia il frutto della sua virtute

Gloria non solo, ma !’altrui salute.

Però in quest’anno mille settecento

Cinquantacinque (oh epoca gloriosa!),

Nei santi del santo pentimento,

Nel tempio augusto di Maria Formosa,

In questa, che nel liquido elemento

La sua reggia fondò città pomposa,

A noi mandò la Provvidenza industre

Del Serafico Padre un figlio illustre.

Pastrovicchi, orator sul Tebro nato,

Dell’illirica terra originario,

Di Girolamo suo lo stile ornato,

Dolce insieme e robusto ha ereditario;

E nel seguire il santo apostolato,

Giusta la mente del roman Vicario,

Arder di zelo e lacrimar fu visto

Per ricondur le pecorelle a Cristo.

Il primo che alla brutal succede

Notte di Carnovale ultima indegna,

Che con polvere umil la santa Fede

A rammentare il nostro fin c’insegna,

Ah che talor pur troppo alcun si vede

Ridere in faccia alla lugubre insegna,

Ed occupando dormiglioso il banco,

Udir la Messa coll’amante al fianco.

Ma chi per grazia della Provvidenza

Udir poteo nelle sacrate porte

Del divino orator l’alma eloquenza

Sgridar il vizio, e favellar di Morte;

L’alma tosto dispose a penitenza,

Temendo il fin dell’infernal coorte,

E pianse il reo del suo fallir pentito,

E la cenere prese umil contrito.

Indi talun che di Cristiano ha il segno,

E il cuore innalza ad insultar la Fede,

Seguace rio di quel costume indegno

Ch’oggi nel mondo a prevaler si vede,

E il più superbo pervicace ingegno,

Nell’udir lui, trema, s’arrende, e crede;

Indi la fede sua fa che si scopre

Verace fede per la via dell’opre.

E chi sdegno nutria, tenace, antico,

Col funesto desio d’aspra vendetta,

Perdonare fu visto al suo nemico,

E correr tosto ad abbracciarlo in fretta.

Ah se talun, ch’è delle risse amico,

Udita avesse quella benedetta

Voce divina, che penetra i marmi,

Cessato avrebbe di perseguitarmi.

Lungo troppo sarebbe il ridir tutti

I cuor perversi, che da lui fur vinti.

Son del suo amor, son del suo zelo i frutti

Le rinate virtudi, i vizi estinti.

Ha con dolcezza i docili condutti,

Ha i contumaci col terror convinti,

E fa che ognuno per diversa strada

A penitenza salutar sen vada.

E la Grazia efficace, od efficiente,

La naturale, e soprannaturale,

E la concomitante, e susseguente,

E preveniente Grazia abituale,

E la santificante, o sufficiente,

E la forte di Dio Grazia attuale

Si ben dipinse agli animi terreni,

Che di Grazia divina essi fur pieni.

Non più, dicean le femmine tra loro,

Del prossimo non più mormorazioni:

Lingua, flagello dell’altrui decoro,

Apprendi a recitar sante orazioni.

La famiglia, la Chiesa ed il lavoro

Sien le nostre miglior conversazioni:

Cessino in casa le orgogliose liti,

Ed il tormento ai miseri mariti.

Non più amori, non più, le verginelle

Diceano anch’esse, lagrimando a prova;

Cessi lo studio di lisciar la pelle,

Che or vano è troppo, e in vecchia età non giova.

Ah non più amori, le congiunte anch’elle

Dicean, seguaci dell’usanza nuova:

Lungi, lungi da noi, se dunque è reo,

Il servente, l’amico, il cicisbeo.

E gli usurari sospirar fur visti

Disserrando tremanti oro ed argento,

E nel privarsi de’ preziosi acquisti,

Per un scudo sperar d’averne cento.

Ai poverelli di miseria tristi

Parte de’ suoi tesor donando a stento,

Gli occhi chiudeva l’infelice avaro,

Per non morir nel porgere il denaro.

Ma pur convinti, svergognati, accesi

Di timore e d’amore, a poco a poco

Dal vizio andran dell’avarizia illesi,

Le ricchezze cercando in altro loco.

Essere il mondo da Francesco intesi

Un’ombra, un fumo, un’illusione, un gioco.

Vera eterna fortuna in Ciel ci aspetta;

Ma è la strada del Ciel spinosa e stretta.

Quanto costò nostra salute, ahi quanto

Alla Vergine Madre addolorata!

Rammentate, Foresti, il largo pianto,

Onde la Chiesa fu per noi bagnata,

Allor che di Maria mostrocci il vanto

Dei tre forti dolori in una fiata:

Figli ciascun del triplicato amore,

Che le feriro con tre punte il cuore.

E del Figlio di lei, dell’Uomo Dio,

Che per nostra salute è morto in croce,

Quando più forte ragionar s’udio

Fra le mura del tempio amabil voce?

Cuore non fu sì pertinace e rio

Che alla tragedia resistesse atroce;

Piangere il giusto e il peccator fu visto,

Tutti col buon ladron, niuno col tristo.

Sogliono gli orator, pria di partire,

Lasciar ricordi contro al rio demonio:

Piacque a Francesco il minister compire

Coll’ampie lodi del divino Antonio;

Opera insigne, che potria servire

Sola del suo valor per testimonio:

Svelò l’amor del taumaturgo pio

Verso sé, verso gli altri, e verso Dio.

Qual maggior bene ricordar potrebbe

Oltre l’imitazion di sì gran Santo?

Ma la virtù, che in noi discese e crebbe,

Come durare in noi vedrassi, e quanto?

Deh quella fronte, ove il suo latte bebbe

L’anima nostra, e dissetossi alquanto,

Torni, deh torni a scaturir fra noi.

Pastrovicchi, signor, favello a voi.

A voi favello, e meco porto i voti,

Pieni d’amor, d’una cittade intera.

Mirate il cuor de’ popoli divoti,

Che vi acclama, vi loda, ed in voi spera.

E di Vinegia non son nomi ignoti

I cittadini dove il Tebro impera.

Ella divota al Vatican, qual nacque,

Col mondo il regno finirà nell’acque.

Le interne piaghe a medicare intento

Voi all’alme porgeste ampia salute;

Ma dei nemici recanci spavento

Le minacciate triplici ferute.

Dell’Occasion la predica rammento,

In cui mostraste medica virtute:

Deh, se ‘l frequente medicar vita,

Replicateci voi la vostra aita.

Di rivedervi la fondata speme

Scema il dolor della partenza vostra;

E quanto a ognuno la salute preme,

Altrettanto desioso in ciò si mostra.

La Musa mia, d’altre più colte insieme,

La man vi bacia, e con amor si prostra.

Piacciavi d’aggradir la rima umile

Col mio comico usato, amico stile.

 

 


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