Carlo Goldoni
Componimenti poetici

POESIE IN LINGUA E IN DIALETTO DEL PERIODO VENEZIANO (1748 - 1762)

RISPOSTA DEL GOLDONI AL SIGNORE STEFANO SCIUGLIAGA

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RISPOSTA DEL GOLDONI

AL SIGNORE STEFANO SCIUGLIAGA

 

Sciugliaga, i dolci tuoi carmi sonori

Sciolgono in me la fantasia legata

Dalla comica Musa, e nel mio petto

Talìa cede gli onori all’alma suora

Calliope, madre degli eroici canti.

Cinto di lauri il crin, col plettro allato,

Inni cantar al faretrato Amore,

Di pacifico ulivo all’ombra amica,

Veggami il curioso spettatore;

Dicami: Polissen, tu sei quel desso

Che l’ingordo rapace, il falso amico,

L’empio, il mendace e l’impostor pungesti?

E non mel creda, se rispondo: Io sono.

Né per colui vo’ mi ravvisi il mondo

Che, le vittorie d’Imeneo cantando,

Seppe infiorar di comici concetti

Le laudi epitalamiche sonore.

L’aureo sul Tebro grave metro usato

Mi percuote l’orecchio, e in sen mi desta

L’armonia spenta, qual cetra non tocca

Con giusta ad arte simmetria locata

Risponde a cetra dalle dita scossa.

Degli esametri carmi andar del pari

Può sol l’endecasillabo spogliato

Della rima, che snerva il suon robusto;

Qual del divin verseggiator latino,

Seppe tradur la maggior opra il Caro.

Ecco, i numeri scelgo i più concordi

A quei che meco a stimolarmi usasti;

Ma i detti incolti pareggiar non posso,

Sciugliaga, ai tuoi, che de’ Britanni al fonte

Qual bevesti, non bebbi, ove s’impara

Dir molto in poco, e dir soave e forte.

So che te al monte vanità non spinge

Di mercar fama dalle Aonie suore;

Ma per diletto a quella meta arrivi,

’Ve sudan tanti penetrare in vano.

Taci di me, se numerar ti piace

I fortunati che toccar le cime

Del bel Permesso e trapassaro a volo

Le spine, i sterpi, dell’invidia a scherno.

Io qual timida serpe il suol radendo

Di sasso in sasso, ora allungando il collo,

Or traendomi dietro il corpo inerme,

La via calcata di salire agogno;

Ma la cima dei monte al serpe è chiusa,

E può solo volar di balza in balza

Canoro augel colle grand’ali a tergo.

Non mi adular; ché se la Gallia industre,

La saccente Britannia, e la belligera

Alemagna converte in proprio stile

Del mio sudor, della mia Musa i parti,

Di nuove spoglie travestiti, avranno

Vita migliore dal secondo padre.

Tu l’avrai da te stesso; i gravi studi

Sempre fur tua delizia; or la divina

Scienza t’accende, che l’eterna essenza,

E il divin culto, e i gran misteri addita,

Onde meglio lodar l’Onnipossente,

Che ti feo ricco di virtù e saggezza.

Lascia il vulgo gracchiar, che non ravvisa

Mediocrità fra la virtude e il vizio,

E misantropo crede il saggio e il dotto.

La mano un tempo ad Imeneo cedesti;

Libero, or di te sei arbitro e donno,

credi amor della tua Musa indegno.

Non quell’amor che anime vili accende,

D’impure voglie promotor Cupido,

Ma il saggio, il casto, il venturoso arciero

Che il sen ferisce degli eroi soltanto;

Quel dolce amor, che d’un Valiero il cuore

Unisce al cor di vergine sublime

Di sangue nata Gradenigo, eccelso.

Chi è mai sì ignaro degli Adriaci fasti,

Che nomi tali non conosca, e appieno

I lor nuovi non sappia, e prischi onori?

Non le fere battaglie e i tristi eventi

Della tenace sanguinosa pugna

La pacifica Musa a cantar prende;

Ma se meschiare a te piacesse, o Vate,

All’imprese d’amor del furibondo

Marte le stragi, spazioso campo

Offre a’ tuoi carmi la vittoria stessa

Che i Gradenighi ed i Valieri addita,

Gloria ed onor de’ secoli vetusti,

E in carte, e in bronzi, e in sculte tele, e in marmi

(Memorie eterne dei guerrieri antichi,

Provido esempio ai successor nipoti);

E ai rami eterni di sì eccelsi tronchi,

Mira appese le porpore sublimi,

E i regal manti, e le ducali insegne,

Sudati frutti di valor guerriero.

Lunge lunge de’ bellici strumenti

Il suon feroce in sì bel giorno; Euterpe

Spinga soavemente il dolce fiato

Nelle stridule canne; accosti all’arpa

Tersicore la mano; e dolcemente

Odasi Erato tasteggiar la cetra,

E Clio la lira, e Calliope il plettro:

Formi Urania i presagi, ed apra il fonte

Polinnia dei rettorici concetti.

Delle nove sorelle a te stan sette,

Sciugliaga, d’intorno. Io vantar posso

Le grazie umili di Talia soltanto;

E talor di Melpomene superba

Il coturno baciar. Deh, se ti cale

Di Cristoforo tuo l’onor, la fama,

Se di Teresa le virtudi eccelse,

E di tale Imeneo le glorie, i fasti,

Non arrestar de’ dolci carmi il suono

Per lasciar me nella più dura impresa,

In cui non lice adoperare il socco.

Ma tant’obbligo ho teco, e l’amicizia

Tanto può in me, tanto l’umìl rispetto,

Che al nome illustre di tai sposi io serbo,

Che vo’ al di sopra di me stesso alzarmi.

Schieratevi da un lato al mio cospetto,

Vizi, dell’uom persecutori eterni;

E voi belle virtù venite a destra

A trionfar de’ perfidi nemici.

Vien, di te gonfia, delirante, altera,

Vana Superbia, che l’onor adombri

Di false tinte e coloriti inganni.

Specchiati in volto all’Umiltà, che abbassa

Per modesto rossor le luci al suolo.

Ella, se tu nol sai, dal cor si parte

Della bella Teresa, e in mezzo a tanta

Gloria che la circonda, al Ciel lode,

E il vano orgoglio, e l’alterezza abborre.

Pallida in faccia, macerata e smunta,

Vien, lugubre Avarizia, e a tuo dispetto

Mira la mano liberal pietosa

Della virtude, che il Valiero adorna.

Tra il confin d’avarizia, e il periglioso

Prodigo calle, vigilante insegna

Il felice sentier Prudenza umana.

E tu, nemica di te stessa, ingorda,

Deridi pur lo smoderato abuso

Di Providenza, ma vergogna prendi

Della virtù, che fra gli estremi alligna.

Copriti il volto di rossor macchiato,

Fervida Passion, figlia inonesta

D’impuri affetti, e di perigli madre.

No, le torbide luci al bianco velo

Della santa Onestà fissar non dei.

Ella di puro amor l’anime accende

Di due sposi novelli. Il verginale

Cinto discioglie d’innocenza al fianco,

E al cor di Lui perpetuamente annoda.

fia che il fiato de’ profani amori

I sacri nodi rallentar si vegga

Della soave marital catena;

Né il geloso vapor, né il rio veleno

Della discordia penetrarvi ardisca.

Chi sei tu, che guatando or questa, or quella

Bella virtù, ch’è di se stessa adorna,

Ne aspiri al vanto, e non imiti i pregi?

Perfida, ti conosco, Invidia atroce,

C’hai del tuo labbro insanguinato il dente.

Fremi dinanzi alla ridente coppia

Degli amanti felici. Osserva in essi

L’illustre sangue che lor empie il seno.

Mira il valor delle famiglie antiche,

Gloria del patrio ciel, gloria del mondo.

Vedi ricchezza, onor, pace e decoro,

E virtude, e bellezza a lor d’intorno.

Mira quanta Umiltà nel cor s’annida

Dei novelli congiunti, il proprio bene

Godendo in pace, dello altrui contenti;

E le tue brame pertinaci, ardite,

Dal bell’esempio a moderare impara.

Eh, del baratro fosco itene al fondo

Miserevoli arpie, Gola rapace,

Ira cocente e vergognosa Accidia.

Temperanza soave, amor di pace,

Operosa virtù tornano al seno,

Donde partir, dei coniugati eroi;

E voi, donde sorgeste, ite frementi.

Libera vuol la scena Amor fecondo;

Ecco, dal terzo ciel Venere il guida

Col secondo fanciul, che Imene ha nome.

Adria augusta, felice, ecco il momento

Fortunato per te Pronuba all’ara

Mira la dea che nella Cipria sede

Incoronò d’una tua figlia il crine.

Ecco i sposi novelli; Amor da un lato

Scuote la face, ed Imeneo dall’altro;

E, dalla fiamma separati, i fumi

Grati odorosi volano d’intorno

Della donzella, a fecondarle il seno.

O sospirata, avventurosa prole,

Scendi dalla tua stella, e vita prendi,

E le speranze a consolar ti affretta.

 

 


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