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POESIE IN LINGUA E IN DIALETTO DEL PERIODO VENEZIANO (1748 - 1762)
RISPOSTA DEL GOLDONI AL SIGNORE STEFANO SCIUGLIAGA
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Sciugliaga, i dolci tuoi carmi sonori
Sciolgono in me la fantasia legata
Dalla comica Musa, e nel mio petto
Talìa cede gli onori all’alma suora
Calliope, madre degli eroici canti.
Cinto di lauri il crin, col plettro allato,
Inni cantar al faretrato Amore,
Di pacifico ulivo all’ombra amica,
Veggami il curioso spettatore;
Dicami: Polissen, tu sei quel desso
Che l’ingordo rapace, il falso amico,
L’empio, il mendace e l’impostor pungesti?
E non mel creda, se rispondo: Io sono.
Né per colui vo’ mi ravvisi il mondo
Che, le vittorie d’Imeneo cantando,
Seppe infiorar di comici concetti
Le laudi epitalamiche sonore.
L’aureo sul Tebro grave metro usato
Mi percuote l’orecchio, e in sen mi desta
L’armonia spenta, qual cetra non tocca
Con giusta ad arte simmetria locata
Risponde a cetra dalle dita scossa.
Degli esametri carmi andar del pari
Può sol l’endecasillabo spogliato
Della rima, che snerva il suon robusto;
Qual del divin verseggiator latino,
Seppe tradur la maggior opra il Caro.
Ecco, i numeri scelgo i più concordi
A quei che meco a stimolarmi usasti;
Ma i detti incolti pareggiar non posso,
Sciugliaga, ai tuoi, che de’ Britanni al fonte
Qual bevesti, non bebbi, ove s’impara
Dir molto in poco, e dir soave e forte.
So che te al monte vanità non spinge
Di mercar fama dalle Aonie suore;
Ma per diletto a quella meta arrivi,
’Ve sudan tanti penetrare in vano.
Taci di me, se numerar ti piace
I fortunati che toccar le cime
Del bel Permesso e trapassaro a volo
Le spine, i sterpi, dell’invidia a scherno.
Io qual timida serpe il suol radendo
Di sasso in sasso, ora allungando il collo,
Or traendomi dietro il corpo inerme,
La via calcata di salire agogno;
Ma la cima dei monte al serpe è chiusa,
E può solo volar di balza in balza
Canoro augel colle grand’ali a tergo.
Non mi adular; ché se la Gallia industre,
La saccente Britannia, e la belligera
Alemagna converte in proprio stile
Del mio sudor, della mia Musa i parti,
Di nuove spoglie travestiti, avranno
Vita migliore dal secondo padre.
Tu l’avrai da te stesso; i gravi studi
Sempre fur tua delizia; or la divina
Scienza t’accende, che l’eterna essenza,
E il divin culto, e i gran misteri addita,
Onde meglio lodar l’Onnipossente,
Che ti feo ricco di virtù e saggezza.
Lascia il vulgo gracchiar, che non ravvisa
Mediocrità fra la virtude e il vizio,
E misantropo crede il saggio e il dotto.
La mano un tempo ad Imeneo cedesti;
Libero, or di te sei arbitro e donno,
Né credi amor della tua Musa indegno.
Non quell’amor che anime vili accende,
D’impure voglie promotor Cupido,
Ma il saggio, il casto, il venturoso arciero
Che il sen ferisce degli eroi soltanto;
Quel dolce amor, che d’un Valiero il cuore
Unisce al cor di vergine sublime
Di sangue nata Gradenigo, eccelso.
Chi è mai sì ignaro degli Adriaci fasti,
Che nomi tali non conosca, e appieno
I lor nuovi non sappia, e prischi onori?
Non le fere battaglie e i tristi eventi
Della tenace sanguinosa pugna
La pacifica Musa a cantar prende;
Ma se meschiare a te piacesse, o Vate,
All’imprese d’amor del furibondo
Marte le stragi, spazioso campo
Offre a’ tuoi carmi la vittoria stessa
Che i Gradenighi ed i Valieri addita,
Gloria ed onor de’ secoli vetusti,
E in carte, e in bronzi, e in sculte tele, e in marmi
(Memorie eterne dei guerrieri antichi,
Provido esempio ai successor nipoti);
E ai rami eterni di sì eccelsi tronchi,
Mira appese le porpore sublimi,
E i regal manti, e le ducali insegne,
Sudati frutti di valor guerriero.
Lunge lunge de’ bellici strumenti
Il suon feroce in sì bel giorno; Euterpe
Spinga soavemente il dolce fiato
Nelle stridule canne; accosti all’arpa
Tersicore la mano; e dolcemente
Odasi Erato tasteggiar la cetra,
E Clio la lira, e Calliope il plettro:
Formi Urania i presagi, ed apra il fonte
Polinnia dei rettorici concetti.
Delle nove sorelle a te stan sette,
Sciugliaga, d’intorno. Io vantar posso
Le grazie umili di Talia soltanto;
Il coturno baciar. Deh, se ti cale
Di Cristoforo tuo l’onor, la fama,
Se di Teresa le virtudi eccelse,
E di tale Imeneo le glorie, i fasti,
Non arrestar de’ dolci carmi il suono
Per lasciar me nella più dura impresa,
In cui non lice adoperare il socco.
Ma tant’obbligo ho teco, e l’amicizia
Tanto può in me, tanto l’umìl rispetto,
Che al nome illustre di tai sposi io serbo,
Che vo’ al di sopra di me stesso alzarmi.
Schieratevi da un lato al mio cospetto,
Vizi, dell’uom persecutori eterni;
E voi belle virtù venite a destra
A trionfar de’ perfidi nemici.
Vien, di te gonfia, delirante, altera,
Vana Superbia, che l’onor adombri
Di false tinte e coloriti inganni.
Specchiati in volto all’Umiltà, che abbassa
Per modesto rossor le luci al suolo.
Ella, se tu nol sai, dal cor si parte
Della bella Teresa, e in mezzo a tanta
Gloria che la circonda, al Ciel dà lode,
E il vano orgoglio, e l’alterezza abborre.
Pallida in faccia, macerata e smunta,
Vien, lugubre Avarizia, e a tuo dispetto
Della virtude, che il Valiero adorna.
Tra il confin d’avarizia, e il periglioso
Prodigo calle, vigilante insegna
Il felice sentier Prudenza umana.
E tu, nemica di te stessa, ingorda,
Di Providenza, ma vergogna prendi
Della virtù, che fra gli estremi alligna.
Copriti il volto di rossor macchiato,
Fervida Passion, figlia inonesta
D’impuri affetti, e di perigli madre.
No, le torbide luci al bianco velo
Della santa Onestà fissar non dei.
Ella di puro amor l’anime accende
Di due sposi novelli. Il verginale
Cinto discioglie d’innocenza al fianco,
E al cor di Lui perpetuamente annoda.
Né fia che il fiato de’ profani amori
I sacri nodi rallentar si vegga
Né il geloso vapor, né il rio veleno
Della discordia penetrarvi ardisca.
Chi sei tu, che guatando or questa, or quella
Bella virtù, ch’è di se stessa adorna,
Ne aspiri al vanto, e non imiti i pregi?
Perfida, ti conosco, Invidia atroce,
C’hai del tuo labbro insanguinato il dente.
Fremi dinanzi alla ridente coppia
Degli amanti felici. Osserva in essi
L’illustre sangue che lor empie il seno.
Mira il valor delle famiglie antiche,
Gloria del patrio ciel, gloria del mondo.
Vedi ricchezza, onor, pace e decoro,
E virtude, e bellezza a lor d’intorno.
Mira quanta Umiltà nel cor s’annida
Dei novelli congiunti, il proprio bene
Godendo in pace, dello altrui contenti;
E le tue brame pertinaci, ardite,
Dal bell’esempio a moderare impara.
Eh, del baratro fosco itene al fondo
Miserevoli arpie, Gola rapace,
Ira cocente e vergognosa Accidia.
Temperanza soave, amor di pace,
Operosa virtù tornano al seno,
Donde partir, dei coniugati eroi;
E voi, donde sorgeste, ite frementi.
Libera vuol la scena Amor fecondo;
Ecco, dal terzo ciel Venere il guida
Col secondo fanciul, che Imene ha nome.
Adria augusta, felice, ecco il momento
Fortunato per te Pronuba all’ara
Mira la dea che nella Cipria sede
Incoronò d’una tua figlia il crine.
Ecco i sposi novelli; Amor da un lato
Scuote la face, ed Imeneo dall’altro;
E, dalla fiamma separati, i fumi
Grati odorosi volano d’intorno
Della donzella, a fecondarle il seno.
O sospirata, avventurosa prole,
Scendi dalla tua stella, e vita prendi,
E le speranze a consolar ti affretta.