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POESIE IN LINGUA E IN DIALETTO DEL PERIODO VENEZIANO (1748 - 1762)
I RITI E LE CERIMONIE NELLA MONACALE PROFESSIONE Stanze in occasione che la nobil donna Marina Falier professa la regola di Sant’Agostino nel venerando monastero di Santa Marta.
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I RITI E LE CERIMONIE NELLA MONACALE PROFESSIONE
Stanze in occasione che la nobil donna Marina Falier professa
la regola di Sant’Agostino nel venerando monastero di Santa Marta.
Donne, grazie al Signor, finito è l’anno,
E la sposa Faliera è viva e sana,
Bench’ella visse in doloroso affanno,
Finché vedea la Profession lontana:
Or che contenti i desir suoi saranno,
Or che sente a suonar la sua campana,
Torna ridente e giubilante in viso
Con un’aria gentil di Paradiso.
Dell’opra il fine ad ammirar venite
Or che giura la fede a Dio Signore.
Donne, venite pur, ma non mi dite
Ch’io vi fo da pedante e correttore.
V’ho ben l’altr’anno mormorar sentite,
Vi lagnaste di me con del calore:
Ma se il falso dich’io, non vi dolete,
E se tocco nel vero, almen tacete.
Il proverbio vulgar vi sarà noto:
La gallina che grida ha fatto l’uovo.
I colpi miei se n’anderanno a vuoto,
Se la materia da colpir non trovo.
E se qualche scorretto e mal divoto
Che si risvegli co’ miei versi io provo,
Dico: Signor, son peccatore anch’io,
Ma corregger lo puoi col labbro mio.
Orsù, donne, venite, io vi prometto
Lasciar da parte il critico linguaggio.
Alla solita chiesa oggi v’aspetto,
D’Elena ad ammirare il bel coraggio.
Mirate, come nell’umile aspetto
Mostra l’anima pura ed il cor saggio,
Ogni umana passion depressa e vinta,
Al santo, al grande sagrifizio accinta.
Ecco: principio alla funzion si è dato
Dalle raccolte monache divote,
Altre in questo divise, altre in quel lato,
Alternando fra lor le sacre note;
E l’abbadessa colla sposa allato,
Colle man giunte e colle luci immote,
Seguono il coro che all’altar si move,
E accompagnano il salmo trentanove.
Aspettato ho il Signore; ei giunse al fine,
Esaudì le mie preci, e mi ha levata
Delle miserie dal letal confine,
E dalla feccia della gente ingrata.
Segnando ai passi miei l’orme divine,
Sopra stabile base io son locata;
Pose nelle mie labbra un nuovo canto,
Canto eletto a lodar fra’ santi il santo.
Treman taluni al suo divino aspetto,
Altri sperano in lui; beati quelli
Che di dolce speranza ardono in petto,
Aborrendo i costumi iniqui e felli.
Gli alti prodigi ad ammirar costretto,
Ignorante ciascun se stesso appelli.
Il labbro apersi a supplicarlo appena,
Ch’i’ fui di grazie e meraviglie piena.
Il sacrificio che il Signor pretende,
Non è qual converrebbe al rio peccato.
L’olocausto del cuor pietoso attende,
Ecco il cuore al mio Dio sacrificato.
Il mio voler sol di volere intende
Quel ch’è scritto di me nel sen del fato.
Ho stampata nel cuor di Dio la legge,
Solo Dio mi consiglia, ei sol mi regge.
Annunziai la giustizia in mezzo al tempio;
La verità colle mie labbra ho detta;
E al mondo tutto pubblicai l’esempio
Della pietà che da te sol si aspetta.
Se, com’io posso, il mio dovere adempio,
A soccorrermi tu, Signor, ti affretta;
Coll’usata pietà deh mi conforta,
E siami ognor la verità di scorta.
Mi hanno pur troppo circondata i mali
Che somministra senza fine il mondo.
E pensando alle rie colpe letali,
Tremo, palpito, sudo e mi confondo.
Più dei capelli miei son le fatali
Colpe, di cui sento nell’alma il pondo.
Deh mi traggi, Signor, dal mio periglio,
Porgimi aiuto, e a me rivolgi il ciglio.
Si confondano i rei, temano insieme
Quei che all’anima mia le insidie han tese.
Delle menzogne sue disperda il seme
Chi contro me di sdegno rio si accese.
Provi di confusion le smanie estreme
Chi de’ miei danni a rallegrarsi intese.
Si avviliscano i rei, pera la frode,
Ed esultino quei che a Dio dan lode.
Povera i’ son, se il tuo divino consiglio
Non mi reca soccorso. In te soltanto
Col cuor ridente e con allegro ciglio
Aver l’aiuto e il protettor mi vanto.
Gloria al Padre Superno, e gloria al Figlio,
Gloria al consolator Spirito Santo,
Ora e per l’avvenir gloria si dia,
Qual ne’ secoli eterni, e così sia.
Ecco il salmo tradotto, o, a meglio dire,
Parafrasato o interpretato almeno,
Acciò, donne, possiate un po’ capire
Quel ch’ei contien, se nol capite appieno.
Benché solite siete a proferire
Tante orazion, di cui l’offizio è pieno,
Senza capirle; e in chiesa una vi fu
Che l’offizio tenea coi piedi in su.
Ma impegnato mi son di non dir male;
Stiamo attenti e divoti alla funzione.
Ecco che il sacerdote apre il messale,
E la Messa cantata a dir si espone.
Ma, secondo il costume universale,
Al Chirie, al Gloria, al Credo e all’Orazione
Deesi aspettar, non che si compia il rito,
Ma che i musici il canto abbian finito.
L’anno scorso, a dir ver, su questa cosa
Dissi qualche pensier sano e discreto:
Ma certuni dapoi vi fer la glosa,
E mormorato si è di me in segreto.
Io non vo’ stuzzicar gente rissosa:
Piacemi viver sano, e viver quieto.
Se a dir quel che si fa sarò chiamato,
Io gli risponderò: Non ci ho badato.
Non baderò, se in questo od in quel canto
Del sacro tempio chiacchierar si vede.
Non baderò, se al Sagrificio santo
Gli uomini stanno in ginocchione o in piede.
Non baderò, nell’armonia del canto,
Se per disgrazia qualche strillo eccede;
Poiché mettere a caso anch’io potrei
Qualche piede di più nei versi miei.
Torniamo a bomba, donne mie garbate
(Talun diria, che sa parlar toscano):
Presto, presto, tacete, inginocchiate,
Volgete il cuore al Redentor Sovrano.
Le sacre ancelle di Gesù mirate
Alla grata venir di mano in mano,
E la sposa novella in umil veste
Accostarsi divota al pan celeste.
Ora vi convien star con divozione,
Custodire le labbra e gli occhi vostri,
Qualche iaculatoria, o sia orazione,
Indrizzare all’Autor de’ giorni nostri.
Coi rosari potete, o le corone,
Dir delle Avemarie, dei Paternostri;
Ma nel dir le santissime parole
Non pensate alle serve o alle figliuole.
Meglio è che molto e mal, far bene e poco,
Come insegna il prevosto Muratori.
Masticar Paternostri in ogni loco,
Frammischiar l’orazion con i lavori,
Ascoltar Messa colla testa al gioco,
Udir sermoni, e coltivar gli amori,
Son divozion che spiacciono al Signore:
Meglio è una Avemaria detta di cuore.
Al primier loco il confessor ritorna,
Il sacrificio dell’altar finito;
Cambia le spoglie; col pivial si adorna,
Della grand’opra dà principio al rito.
La donzella dimessa e disadorna
Col cuor risponde al sospirato invito:
Benedisconsi i veli e le candele.
Alla grata la sposa or si avvicina,
E con Davidde il confessor favella:
Odimi, figlia, a me l’orecchio inchina:
Scorda il popolo tuo, ché Dio ti appella.
Lascia il tetto paterno. Iddio destina
Il tuo ben, l’onor tuo; ti vuol far bella.
Offri al Signor la vittima sincera,
Manda ad esso i tuoi voti, ed in Lui spera.
Prendi sopra di te di Cristo il giogo,
E da lui stesso a tollerarlo impara.
Umile è Dio di cuore, e in ogni luogo
A chi l’imita il suo soccorso appara.
Mostri l’anima tua d’amor lo sfogo,
Se la pace ti cal preziosa e cara,
Ed il giogo soffrir non ti sia grave,
Ché il suo peso è leggier, dolce e soave.
La novizia risponde: Il tuo piacere,
Alto Signor, porto nell’alma impresso.
Fuor di quel che tu vuoi, non so volere.
Guidami Tu col tuo consiglio espresso.
La tua legge, Signor, dee prevalere
Alle pompe, all’argento, e all’oro istesso.
A te solo desìo col canto adorno
Rendere i voti miei di giorno in giorno.
Vuoi la Regola, dice il sacerdote,
D’Agostino seguir? Voglio, risponde.
S’alzano tutti, e immaginar si punte
Se sian le suore ad un tal sì gioconde.
Veni, Creator Spiritus, divote
Cantan più voci d’armonia feconde.
L’inno finito, un’orazion si dice,
E il confessor la sposa benedice.
Accostatevi, donne, al finestrino,
Cosa a veder che tenerezza inspira.
Ecco; la sacra sposa a capo chino
Distesa al suol per umiltà si ammira.
Ecco; dalle figliuole d’Agostino
D’un nero panno ricoprir si mira.
Alla terra, dicendo, io mi nascondo;
Per rinascere al Ciel son morta al mondo.
Mirate, o voi che sospirar solete,
Se a tutta moda mancavi il vestito,
Che di pompe e di gale avide siete,
E tormentate il povero marito.
Quella che al suol distesa ora vedete,
Spegne sotto quel manto ogni appetito,
E il genio vostro a risvegliare inclina
Una voglia novella ogni mattina.
Coll’esempio dell’altre, a nuove spese
Spinger si suole il garrulo desio.
Dicesi: Se la tal veste all’inglese,
Voglio all’inglese travestirmi anch’io.
Oh benedetto sia d’Asia il paese,
Ove moda cambiar giammai s’udio!
I lor mariti delirar non fanno,
E risparmiano molto in capo all’anno.
Ora se fra di noi si prende moglie,
Insoffribile peso è il matrimonio.
Per supplir della donna a tante spoglie,
Non basta la metà del patrimonio.
E chi non vuole soddisfar le voglie
Della signora, in casa avrà il demonio,
Onde starsene senza è men fatica,
E chi la prende, il Ciel lo benedica.
Basta, basta così, ché vi ho promesso
Collo critico stil non scriver più.
Udite adunque il sacerdote adesso
Dire alla vergin pia: Levati su.
La tua lampada accendi, ecco dappresso
Lo Sposo tuo, ch’ora incontrar dei tu.
Discoperta tre volte a poco a poco:
Vengo, vengo, risponde, e giunge al loco.
Vieni, soggiunge il gran ministro eletto,
Vieni, sposa di Cristo, e la corona
Prendi, che tu bramasti; il tuo Diletto
Preparolla ab aeterno, e a te la dona.
Risponde allor col più sincero aletto,
Con voce tal che al suo desir consona:
Ecco, l’Ancella al suo Signor s’inchina;
Facciasi pur di me quel ch’ei destina.
L’abbadessa dappresso al confessore
Siede, e la Sposa è innanzi a lei prostrata.
Ed invocato il nome del Signore,
A formar i suoi voti è preparata:
Del sacrificio a1 sacrosanto amore
Dicesi l’anno, il mese e la giornata:
Ai tre del mese, cui diè il nome l’otto,
Del mille settecento e einquant’otto.
Io, dice, Maria Elena, prometto,
E faccio voto a Dio onnipotente,
E alla Vergine santa, e al benedetto
Sant’Agostino, che mi vede e sente,
E a tutti i Santi, e a te, d’ogni rispetto
Degna Madre Abbadessa, e parirnente
All’altre che verranno, in povertà
Vivere, in obbedienza e in castità.
La pia, la saggia, nobil Superiora
Dolce risponde con amor fraterno!
Se osserverai quel che giurasti or ora,
Ti prometto nel Cielo il gaudio eterno.
Indi l’aiuto delle suore implora
Per ottener dal Nume sempiterno,
Che a quel che il labbro della sposa ha detto,
Corrispondano l’opre e il cuor nel petto.
Inchinata la sposa all’abbadessa,
Detta dal confessor certa orazione,
Da lui si scosta, ed all’altar si appressa,
La carta offrendo della Professione.
Nuovamente votando a Dio se stessa,
Dice: Signor, qual nel mortale agone
Per me ti offristi, ed hai la croce eletta,
Fa ch’io t’imiti, e il sacrifcio accetta.
Bacia l’altare, e all’abbadessa riede,
Che la conforta e le presenta il velo.
Poscia alle mani presentar si vede
Il santo libro registrato in Cielo,
Della Regola il libro, in cui la fede
Spiccar si ammira, e di virtude il zelo.
E quel latino che la sposa ha detto,
Osservarla, vuol dir, bramo e prometto.
Indi un serto le porge il confessore
Queste parole d’Isaia dicendo:
Per sua sposa ti elesse il pio Signore,
Al capo tuo questa corona offrendo.
Benedica, risponde, e l’alma e il cuore,
(Gli occhi per riverenza al suol tenendo)
Benedica quel Dio, che sua mi rende,
Che amor soltanto per amor pretende.
Ardenti cere alla donzella offerte,
Segue il ministro di Davidde i sensi:
Della pace al confin per strade aperte
Scorta ti siano i chiari lumi accensi.
Ella risponde: Fra le guide incerte
La parola di Dio m’accenda i sensi.
Non saprò, se mi scorta il suo consiglio.
Né di colpa temer, né di periglio.
E rizzatasi in pié, ridente in viso,
Eccomi, esclama, di colui son sposa,
Che si serve e si onora in Paradiso
La di cui faccia splendere ravviso
Della luna e del sol più luminosa.
A cui contenta ho la mia fé giurata,
Amo lui solo, e son da lui riamata.
Donne, siam giunti al fin della funzione.
Ringraziate il Signor voi pur di cuore.
Coll’acqua santa la benedizione
Dà il ministro alla sposa e all’altre suore.
Accostiamoci un po’; con attenzione
Sentiam quel che or le dice il confessore...
Avete inteso? A lei fa di mestieri
Di star senza parlar tre giorni intieri.
Come (direte voi), senza parlare
Una donna tre dì? Possibil fia
Che donna al mondo possasi trovare,
Che di un lungo tacer capace sia’?
Tutte le austerità potria serbare,
Tutto una donna tollerar potria;
Ia star tre dì senza discior gli accenti,
È il tormento maggior fra i suoi tormenti.
E pur talun, che leggerà i miei carmi,
Donne, non crederà che siate voi,
Che favellan così; ma vorrà darmi
Taccia d’un uom che adopera i rasoi.
Io per questo però non so scaldarmi,
Lascio ciascuno nei deliri suoi.
Pur, per non comparire un animale,
Voglio provar che non ho detto male.
Che se al mondo restasse alcun sospetto
Che in ciò pensassi criticar le donne,
Dopo che da principio a tutti ho detto
Voler dir bene, e rispettar le gonne,
Meriterei che alcuno per dispetto
Le satire attaccasse alle colonne
Contro di me (lo che se a’ giorni miei
Per disgrazia accadesse, io riderei).
Ma quel che ho detto, offendere non puote
Poiché, donne, voi siete al mondo note,
E si sa che tacer non vi è permesso.
Voi la loquacitate aveste in dote,
Poco più, poco men, nel grado intesso;
Ma la loquacità non è viziosa,
Quando la parlatrice è virtuosa.
Io non intesi dir che vi dà pena
Il silenzio importuno a solo fine
Di criticar, quando voi siete in vena,
Le compagne, le amiche e le vicine.
Io non intesi dir che a bocca piena
Contro le umane leggi e le divine
Mormorate or di quello ed or di questo:
Se ’l dicessi, sarei troppo innonesto.
Né dir volea che per costume ardito
Donna si rende incomoda, loquace,
Altercando dì e notte col Marito,
E i figli e i servi non lasciando in pace.
Troppo sarei dal mio sistema uscito
Contro il bel sesso favellando audace:
E in un dì che una donna il sesso onora.
Stolto, incivil, comparirei più ancora.
Ma intesi dir che facile non pare
Star tre giorni in silenzio a donne sagge,
Ch’hanno il dono dal Ciel di ben parlare,
E che tacendo diverrian selvagge:
Queste donne sapienti al mondo rare,
Di cui s’abbonda sulle nostre spiagge,
Mertan parlar senz’esser interrotte,
Mertan d’esser intese e giorno e notte.
Ma pur talvolta un bel silenzio ancora
Util si rende, e meritar può lode.
Quando si tace, si riflette allora,
E internamente del suo ben si gode.
Questa vergine pia, che or fatta è suora,
Se per tre giorni ragionar non s’ode,
In se medesma coi pensier raccolta
Penserà a cento cose, una alla volta.
E non crediate che il pensier rivolga
Un sol momento alle paterne mura,
Né che un momento si lamenti o dolga
D’esser passata in una cella oscura.
Che importa a lei, che giovane s’avvolga
In ricchi panni ad aspettar ventura?
Fra se stessa può dir: Nel tetto mio
Nobil son nata, e fra ricchezze anch’io.
Degli avi miei le immagini dipinte
Mirai più volte, e le lor glorie intesi.
E le lor glorie superate e vinte
Dal padre mio felicemente appresi.
O degno padre, le cui membra cinte
D’ostro vermiglio nuovamente intesi;
Padre, che mi ha condotta al sacro tempio,
Colla forza non già, ma coll’esempio!
Oh saggia, oh virtuosa genitrice,
Che altra figlia farebbe andar superba;
Donna che rende il genitor felice,
E la pace comun promuove e serba!
Da te sol quel che giova, e quel che lice,
Appresi io stessa nell’età più acerba,
E quell’affetto che il mio cor ravviva,
Dal sangue tuo, da tua virtù deriva.
Ma tai pensieri ravvolgendo in mente
Nel suo silenzio l’umile donzella,
Pungersi ii cor da vanità non sente,
Ché un maggior ben la cara pace appella.
Non ascolta il parlar di stolta gente,
Non le cal d’esser ricca e d’esser bella.
Ella suol dir con nobile desio:
La beltà, la ricchezza, io trovo in Dio.
E se il labbro nol dice, or che l’è imposto
Per tre giorni tacer, lo dice il core;
E quando il cor è ad operar disposto,
Opera con più forza e più vigore.
Ditemi, s’egli è ver quel che ho proposto,
Che il tacer del parlar merto ha maggiore?
Donne sagge e prudenti, è ver, voi siete,
Ma qualche volta (se si può) tacete.
Non volete tacer? dunque cantate
Il Te Deum, che si canta a coro pieno.
Sciogliete il labbro, ed il Signor lodate,
Che alla vergine pia ferito ha il seno.
L’inno è finito, a ritirarvi andate;
Parlate poi, ch’io vel concedo appieno.
Dite male di me, dite ch’io sono
Un cattivo poeta, e vel perdono.