Carlo Goldoni
Componimenti poetici

POESIE IN LINGUA E IN DIALETTO DEL PERIODO VENEZIANO (1748 - 1762)

LA TAVOLA ROTONDA Poemetto giocoso in occasione de’ felicissimi sponsali fra Sua Eccellenza il sig. Pietro Contarini e Sua Eccellenza la signora Maria Venier.

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LA TAVOLA ROTONDA

Poemetto giocoso in occasione de’ felicissimi sponsali

fra Sua Eccellenza il sig. Pietro Contarini e Sua Eccellenza la signora Maria Venier.

 

Saggio, eccelso signor, signore adorno

Di gloria e di virtù, Pietro gentile,

Grato non isdegnate in sì bel giorno

Prestar l’orecchio alla mia musa umile;

Sogni non vuò narrar del vero a scorno,

Qual de’ vati moderni usa lo stile:

Desta la veritade il mio pensiero,

Debole è il mio cantar, ma canto il vero.

Di quel foco soave, onde Cupido

Per la sposa gentil vi accese il petto,

Cantar voleva, e dalla dea di Gnido

L’estro impetrar per sì sublime oggetto;

Ma di Venere bella io non mi fido,

Né d’Apollo aver so miglior concetto.

Tai sognate deità giovano poco,

A darmi aita veritade invoco.

Bella cosa è l’udir de’ Vati il coro

L’acque d’un fonte immaginar beato,

Figurar di Parnaso il verde alloro,

E di nove Sorelle il stuol sognato!

Vano favoleggiar! L’estro canoro

È un occulto nell’uom potere innato:

E il fonte ver d’immagini fecondo

Sono le verità scoperte al mondo.

Questo è il Parnaso mio, questo è il mio nume,

Questo è il terren dove l’allor coltivo.

L’Apollo mio della natura è il lume,

Sotto gli auspici suoi medito e scrivo.

Delle genti pingendo il ver costume,

Con qualche gloria in questo mondo io vivo,

E al pubblico recar sogl’io diletto

 Sol con arte a ridir quel ch’altri han detto.

Ora, signor, che ad ascoltar v’invito

Le laudi vostre e della sposa egregia,

Non mi crediate dal costume uscito,

Di cui mia musa e lo mio stit si pregia.

Quello dirò che ragionare ho udito,

Quello dirò che più vi adorna e fregia,

Quel che l’altr’ieri a Tavola Rotonda

Di voi si disse in compagnia gioconda.

Un illustre Romano, un cavaliere

Padron mio vero e conoscente antico,

Amante di trattar genti straniere,

Dei begli spirti e del buon gusto amico,

Mentr’io stava sedendo al mio mestiere,

Meditando alla scena un nuovo intrico,

Venne, e: Lascia (mi disse) il tuo lavoro;

Vari amici a pranzar ti von con loro.

Seco mi mena all’onorato albergo,

’Ve di varie ospiti io veggo.

Ogni tristo pensier mi lascio a tergo,

E l’immagini liete il cor provveggo.

Colla zuppa e i ragù venuti all’ergo,

Alla tavola anch’io m’inoltro e seggo;

Faccio bene da prima il fatto mio,

E l’usato silenzio osservo anch’io.

Girando i piatti e le bottiglie intorno,

L’allegrezza si desta e la favella.

Chi narra i viaggi suoi, chi del soggiorno

Parla giulivo di Venezia bella.

Chi di femmina loda il viso adorno,

Chi pel gioco si lagna e si martella,

Chi questiona, chi scherza e chi sospira,

Chi il riso ha in bocca e chi negli occhi ha l’ira.

Che bel quadro per me bizzarro e nuovo

Di caratteri veri e originali!

Li studio attento e di raccor mi provo

All’usato esercizio i materiali

Per esporli, non già, com’io li trovo,

Ma con l’arte di farli universali;

Sicché in scena si vegga il vizio espresso,

Ma nessun possa dire: Io son quel desso.

Vari si fer ragionamenti alterni,

Or di guerra, or d’amore, or di costume,

Facendo a ognuno i sentimenti interni

Alle labbra venir del vino il nume.

Se dell’uomo gli spirti il vin governi,

Senza offuscar della ragione il lume,

Suol l’attiva possanza aprir la mente,

Ed il vero si vede e il ver si sente.

Si usa pur troppo il simulare al mondo,

E la lode ed il biasmo in cuor si asconde,

Ma l’uomo reso in compagnia giocondo,

Come pensa a ciascun parla e risponde.

Il più serio talor divien facondo,

Il più timido e vil non si confonde,

E anch’io fatto ho taler colla bottiglia

Batter le mani ed inarcar le ciglia.

A dir principia l’Italian grazioso,

Che m’avea seco a desinar condotto:

Amici, un cavalier si fa lo sposo,

Ch’è giovin saggio e ch’è brillante e dotto,

Cavaliere non men grande e famoso

Per l’eccelsa prosapia, ond’è prodotto,

Per i beni del sangue e di fortuna,

Ma per quella virtù che in lui si aduna.

Pietro ha nome lo sposo, e Contarini

È la nobile sua ducal famiglia.

È la sposa Maria di peregrini

Meriti adorna, e d’un Veniero è figlia.

Nomi noti son questi oltre i confini

Ove il sole s’imbruna e s’invermiglia;

E la bella città, che all’Adria impera,

Per tai nozze sen va giuliva e altera.

Un Parigino, rubicondo in viso,

Mescolando il francese all’italiano,

Quasi colto da fulmine improviso,

Salta in due piedi col bicchiere in mano,

Ed esclama: Ah mon Dieu! nel mio paiso286

Jè connù queste nobil veneziano.

L’amor e la tandress, dan tutt fasson,

De famme de la Cour fut ce garçon.

Allon don a vuer l’amable epuse.

Prego la sua meson dir a muè,

Spere l’hourous garçon no me refuse

Che je sante l’honour e l’amité.

Allon, de mon paì seguendo l’use,

Je condurè la dam se promenè.

Che je suì contan! Mes compagnon,

Alla sante de mon amis bevon.

Viva don Pedro, (dice uno Spagnuolo)

Nobile esclarecido veterano.

Mucho estimo Don Pedro, aquel star solo

Digno dell’amistad di un Castigliano.

Es don Pedro mi amigo, e mi consolo

Hablar d’esso col rei, ch’es mio jermano.

Viva donna Maria e l’imeneo

Muchos agnos tambien como desseo.

Prende in mano un Tedesco una bottiglia,

L’accosta al labbro e vuol vederne il fondo,

E ripieno di vin sino alle ciglia,

Mostra il viso ridente e il cuor giocondo.

, cospette di bacco (a dire el piglia),

Ie conosciute Contarin per mondo.

Star braf mne, ome grande affer gran nome :

le safer, ie proffar star calantome.

Ie non fedute ancor spossa Fenier,

Ma mi star de so casa serfitor,

recordar, che Fienna caffalier

Girolame fenute ambassador.

Ome de gran firtù, de gran saper,

Generose, pietose e de gran cor,

A so tafola un mi affer befute

Trenta glozz de Tokai per so salute.

Dice allora un Furlan: Cospè di Giò!

D’Udin logotignit hai cognossù

De ce fameje un cavalir anch’

Che ha in del chiaff le sapienzie e le vertù.

Soggiunge uno scolar di quei del :

Sto nome a l’è famoso anca da nu.

No saiu ch’a l’è sta nostro. Rettore?

E quell’altro daspuò Refformatore?

Esce fuori con garbo un Venezian,

Ch’era stato paziente ad ascoltar:

Siori, me da rider, da cristian,

Co de ste cosse ve mettè a parlar.

Credème, se andè drio fina doman

Ste do fameggie nobili a lodar,

No farè gnente, perché, a quel che sento,

Delle lode ve manca el fondamento.

Bisogna in prima de ste do fameggie

Considerar l’antichità, i splendori.

Bisogna tor per man le maraveggie

Dei primi Dosi e i primi Senatori:

I prencipi saver, saver le reggie

Dove prima i xe stadi Ambassadori.

Necessario è saver per mar, per terra,

Quel che ha fatto i so vecchi in pase e in guerra.

Se ve preme saver, lezè le istorie,

Troverè sette dosi Contarini,

E tre Venieri, e sentirè le glorie

Che del mondo ha impenio tutti i confini.

Vederè le prodezze e le vittorie

De sti nobili eccelsi Cittadini,

E sentirè che li decanta e onora

Con gloria e amor la Santa Chiesa ancora.

Sedea vicino al Veneto eloquente

Un taciturno Asiatico polputo,

Ed alzando la voce, a dir si sente:

Persia star Contarini conosciuto.

A Usum-Cassan imperador possente

Stato Venezia ambassador venuto

Ambroso Contarin, bona memoria,

E aver scritto talian Persiana istoria.

Gustandosi la bocca un Turines,

Disse: mi car sgnor, lolì fa nen.

Del mil e sinquessent a dir ho intes,

Ch’han invoiá Simon dei Contaren,

Ambassador affabile e cortes,

Al duca Emanuel noster souren,

E m’an dime, che chiel fu tant amà

Dai omen, dalle donne e dai masnà.

Valgame Dios (torna a ridir l’Ispano)

Esta generaction de semidei,

Esto Simon, patricio veneziano,

Venne in Espagna embaxadore al rei.

E poscia ambasciator (dice il Romano)

A Paolo Quinto fu spedito anch’ei.

E (ripiglia il Persian) Simon fu stato

Bailo Costantinopola mandato.

Era fra i commensali anche un Inglese,

Che immobile sedea senza parlare.

Coi denti stretti a favellare ei prese

In modo tal, che si sapea spiegare.

Disse: Io lette latin dan mio paese

De Gaspard Contarin tan libre rare,

E ben provate queste cardinal,

Che l’anima dell’om star immortal.

Io li stava ad udir cogli occhi ardenti,

Pieno di gioja e di dolcezza il petto,

Ché a sì grandi famiglie e si clementi

Serbo anch’io, come gli altri, umil rispetto.

Ah, signori, diss’io, gli eroi viventi

Sian del discorso e delle laudi obbietto,

Ché se degni d’allor fur gli avi loro,

Pullula ancor quel verdeggiante alloro.

A me si volge il mio cortese amico,

E mi dice: Goldoni, a te si aspetta

Cantar le glorie di un amor pudico,

Che dei sposi sublimi il nodo affretta.

Tu, che avvezzo già sei per uso antico

Trattar la Musa al genio tuo diletta,

Quale uscisti talor gaio e fecondo,

Trova argomento all’Imeneo giocondo.

Un Lombardo che affetta esser cruscante,

Col riso in bocca e col veleno in petto,

Ergesi intorno in aria di pedante,

E favella così senza rispetto:

Vada prima a studiar Petrarca e Dante

Chi vuol fare canzona ovver sonetto;

E chi vuol schiccherar brillanti ottave,

Abbia dal Berni o dal Burchiel la chiave.

Come si può soffrir che un uomo scriva

Senza il conciossiaché, senza il quandunque?

Per mieter palme all’apollinea riva

Deesi la crusca adoperar dovunque.

Non bastan no del basso vulgo i viva

De’ sacri allori a coronar chiunque,

E poeta chiamar si puote indarno

Chi le pure non bebbe acqua dell’Arno.

Questi (soggiunse) che da voi si loda,

Zeppi di barbarismi ha i scritti suoi.

Il plauso, il grido, l’aiutar con froda

Finor gli amici ad usurpar tra voi.

Faccia baldoria pur, gongoli e goda,

Abbia uno stuol di mecenati eroi,

Vanti l’opre tradotte in più d’un suolo:

Basto i suoi carmi a scorbacchiare io solo.

Mi chiedete ragion perch’io lo faccia?

In bronzi, in marmi, la ragion si scriva.

Basta che opra qualunque a me non piaccia,

Perch’io creder la deggia opra cattiva.

Ah mi scrosciano l’ossa, e mi si agghiaccia

Il sangue ed ogni parte sensitiva,

Quando a vanvera leggo e all’impazzata

Il suo Esopo, il Te Deum, la Mascherata.

C’est un fou, c’est un fou, disse il Francese;

Lustich star, lustich star, disse il Germano;

Splin chiamò l’entusiasmo il saggio Inglese;

L’è mat, saugneli in chel, disse il Furlano;

Disse chiel è Guascon, il Piemontese;

Esto es piccaro, disse il grave Ispano.

Persiano dicea: Star mamalucco.

E il Venezian: Vardè che omo de stucco.

Io dissi allor: Signori miei, perdono

Volentieri l’insulto a me dovuto.

Purtroppo il so che buon scrittor non sono,

E che ai fonti miglior non ho bevuto.

Qual mi detta il mio stil, scrivo e ragiono,

E talor per fortuna ho anch’io piaciuto.

Ma guai a me, se il fiorentin frullone

A sceverare i scritti miei si pone.

Posso in comica scena impunemente

Barbare frasi adoperar talora:

Basta che dal comun di nostra gente

S’intenda il frizzo e la sentenza ancora.

Ma dovendo a poemi alzar la mente,

E la lira accordar grave e sonora,

Lo confesso ancor io con buona pace,

Al grand’uopo supplir non son capace.

Or, per esempio, che cantar dovrei

Di due sposi sublimi il pregio, il vanto,

Sollevare non vaglio i versi miei,

Umile troppo e troppo rozzo ho il canto.

Come i pregi poss’io narrar di lei,

Che guida Amor del Contarini accanto?

Come di lui cantar, vile qual sono,

L’alma virtù che nel suo petto ha il trono?

Della bella Veniera il volto e il cuore

Mertano i carmi dei poeti egregi,

E di Pietro la gloria e lo splendore

Merta che altro cantor lodar si pregi.

Più degna coppia il faretrato Amore,

Coppia più adorna di ricchezze e fregi

Non unì mai, dacché la sua faretra

Colpi vibrar alle grand’alme impetra.

Bello é il veder la vergine impaziente

Che il gran momento a suoi desiri aspetta,

E la madre di lei, saggia e prudente,

Inspirarle nel cuor virtù perfetta.

Bello è il vedere il genitor sapiente

Distaccarsi dal sen la sua diletta;

Bello è il vederla del germano allato,

Della Patria decoro e del Senato.

O di gloria e di laudi eterno oggetto,

Pietro illustre, gentil, sapiente, umano!

Pietro, che nutre nell’eroico petto

Vero zelo d’onor, spirto sovrano!

Cantar mi sento dal desio costretto,

Ma lo basso mio stil s’adopra invano;

Amici, per pietade, a sì alto volo

Aiutatemi voi, non basto io solo.

Di Borgogna un bicchier tosto ripieno,

Si prepara il Francese a dir suoi carmi.

Il Tedesco col vin nato sul Reno

Par che anch’ei si disponga a secondarmi.

Seguendo gli altri lo Spagnuol non meno,

Vien col Tinto di Spagna ad animarmi.

Prende un vaso di Ponc l’Inglese in mano,

Piccolit il Furlan, Cipro il Persiano.

Un gotto de nostran portème qua,

(Dice ridendo il Venezian brillante)

Ghe n’avemo anca nu de qualità

Meggio assae de Borgogna e d’Alicante.

Sul Padoan, sul Visentin, se fa

Vin che piase in Ponente e anca in Levante;

So che se stima più quel ch’è, lontan,

Ma mi, quando el xe bon, bevo el nostran.

È vero, è ver (l’amico mio risponde),

In Italia vi son preziosi vini.

Dice il Cruscante: Buoni vini altronde

Non beonsi che in terreni fiorentini.

Del bel suolo toscano e l’aure e l’onde

Pon nei tralci istillar liquor divini;

Ma di un nettare tal bagnarsi è indegno

Celabro chi non ha di crusca pregno.

Risero tutti, e tutti unitamente

Brindisi al sposo ed alla sposa han fatto.

Il Francese cantò graziosamente,

Dello sposo tessendo il bel ritratto;

Pinse l’imagin sua sì vivamente,

Fece di sue virtùvago estratto,

Che i commensali, ad ascoltarlo intenti,

Di lui si diero a presagir portenti.

Disse allora l’Inglese in sua favella,

(E spiegate mi fur le sue parole)

Che produrre dovea piantabella

Frutto novel di avventurosa prole.

Narrò come dal Ciel pura fiammella

L’anima degli eroi discender suole,

E i robusti ci feo carmi sentir

Di Pope, di Adisson, di Sechespir.

Ed il grave Spagnuol fatto sereno,

Versi cantando in stile castigliano,

Stile d’ogni altro stil difficil meno

Da capir, da tradurre in italiano,

Viva Pietro, dicea, di gloria pieno,

Viva l’onor del popol veneziano;

Il mio Don Pietro colla sua compagna

Possa venire ambasciadore in Spagna.

Anche il Tedesco in Sassone purgato,

Ch’è la lingua miglior di quel paese,

Lodando i sposi ha un madrigal formato,

Ma nessuno di noi le rime intese.

Quel che voleva dir, ci fu spiegato

Bastantemente dall’amico inglese,

E dicea che il Prussiano all’armi accinto,

Se vedesse Maria, sarebbe vinto.

Mi, soggiunse il Persian, no star poeta,

Altro no saver dir, che viva sposi.

Tutta la compagnia gioconda e lieta

Viva, disse, ed al viva anch’io risposi.

E il Furlan nella sua lingua faceta,

Che ha voci strane e termini curiosi,

Disse: Domenegiò, che ha fatt les stellis

Us dia dei fruzz e des fantatis biellis.

Cantor s’intese il Venezian: De cuor

 Digo eviva anca mi sti cari sposi,

Li benediga el Ciel, prego el Signor

Che i se ama sempre, e che no i sia zelosi.

Quando Zelenza Piero avrà l’onor

D’esser sentà dove se senta i dosi,

Sarò contento, e ghaverò un bel tema

Per formar anca mi qualche poema.

Il Romano cantò: L’eroe sublime

Spero veder del regal manto adorno;

Per condurlo di gloria all’alte cime

Gli stanno il merto e la virtude intorno.

Preparate, poeti, e cetre e rime

Per esaltar la sua grandezza un giorno;

E giunto poi d’eternitade al tempio,

Serva ai nipoti e ai cittadin d’esempio.

L’affettato Lombardo anch’ei voleva

I riboboli suoi versare a iosa,

Ma nessuno di noi soffrir poteva

Frasi che han d’uopo di comento e chiosa.

Ei, che di dentro più d’ogni altro ardeva

Di dir qualche stupenda e strana cosa:

Me accolgan, disse, questi eroi del paro

Della lor protezion sotto l’AMPARO.

, , (esclama il Francese) cet ramparo

Je n’antand, che vol dir? Disse l’Ispano:

Es bocabolo nuestro. Oh termin raro!

Disse, ridendo, il cavalier romano.

L’Inglese replicò: Feduto chiaro

Beffer poco Lombardo Arno toscano.

Soggiunse il Venezian: Mo i xe pur bei!

E il Furlan: Nol ghin , no sacrezei.

Si levò dalla mensa, e rabbuffato

Partì il pedante, e non ci disse addio.

Giunse in quel mentre un messagger mandato

A dar la nuova che la sposa uscìo.

Per vederla ciascun s’è congedato,

Partì l’amico, e coll’amico anch’io;

Egli per via m’incoraggiava al canto;

Io costante dicea: Non vaglio tanto.

Altro non posso far, che in umil foglio

Narrare i fatti e registrare i detti

Della tavola nostra, e uscir d’imbroglio,

Merto acquistando cogli altrui concetti.

Ma plagiario costume usar non soglio,

Vuò che la verità s’ami e rispetti.

Dirò le laudi che dei sposi ho intese,

Ma dirò degli autor grado e paese.

Ecco, Signor, com’io dicea da prima,

Ecco la verità ne’ fogli miei.

Dirvi in segno sincer d’ossequio e stima

Più di quello che intesi io non saprei.

Se lodarvi sapessi in prosa o in rima,

Il luogo, il tempo e l’argomento avrei;

Ma povero di mente e d’intelletto,

Basta ch’io sappia dir quel ch’altri han detto.

Il resto poi chiuso lo serbo in cuore,

Serbo il vero rispetto a voi dovuto,

E la certa speranza e il vivo ardore

Che aggradir vi degniate un mio tributo.

So ch’io non merto un sì sublime onore,

Misero qual io sono e sconosciuto:

Ma so che a voi la gentilezza è guida;

Ciò all’ardire mi sprona, e ciò mi affida.

 

 





p. -
286 In questo e negli altri linguaggi stranieri italianati non si potuto osservare veruna ortografia, appunto per la stravaganza della espressione.



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