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POESIE IN LINGUA E IN DIALETTO DEL PERIODO VENEZIANO (1748 - 1762)
IN OCCASIONE CHE VESTE IL SACRO ABITO RELIGIOSO NELL’INSIGNE MONISTERO DELL’UMILTÀ LA SIGNORA ANTONIA REVESSI EPISTOLA
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IN OCCASIONE CHE VESTE IL SACRO ABITO RELIGIOSO
NELL’INSIGNE MONISTERO DELL’UMILTÀ LA SIGNORA
Carlo Goldoni scrive, e s’inchina,
Ed in risposta d’un suo viglietto,
Con cui per monaca chiede un sonetto,
Che un buon sonetto fare non sa.
Scherzando un giorno col caro amico,
Disse Goldoni: Se un tale intrico
Soffrir io deggio per amor vostro,
Vengano i dolci dal santo chiostro;
Ei, che verranno, mi ha assicurato,
Ed io di scrivere sono impegnato.
Ma tanto ho detto finor per monache,
Tanto ho lodato le sacre tonache,
Che alla mia Musa, che alla mia testa,
Su tal proposito più dir non resta.
Vorrei pur tessere un pensier nuovo,
Ma più che il cerco, men lo ritrovo;
E questa volta, cortese amico,
Servirmi io deggio del stile antico.
I bravi artefici che più ne sanno,
Che inventan mode novelle ogn’anno,
Talor ripigliano per novità
Quel che si usava trent’anni fa.
Io parimenti, che tanto ho detto
Finor di nuovo su tal soggetto,
Torno allo stile che han praticato
Quelli del secolo oltrepassato.
Il più bel pregio della poesia
Era in quel tempo l’allegoria;
Allor solevasi pigliar il tema,
E per le monache principalmente
Quello facevasi comunemente;
Onde gli antichi seguendo anch’io,
Vuò assottigliare l’ingegno mio,
Vuò della vergine dal nome santo
Trar l’argomento del nuovo canto.
Cambiando il nome secondo usanza,
Volle chiamarsi Maria Costanza,
E di Celeste col nome aggiunto,
Della costanza toccato ha il punto.
Non vi è costanza nel nostro mondo,
D’inganni il secolo è sol fecondo,
Trovarla puote soltanto in Cielo.
Che la costanza, qual la fenice,
Dal volgo credesi che ancor si dia,
Ma non si penetra dov’ella sia,
Parla di quella costanza umana
La cui ricerca nel mondo è vana,
La nostra amabile saggia donzella,
Che ama e desidera virtù sì bella,
Sa più di tutti che la costanza
Sol fra i celesti può aver la stanza.
Sa che nel mondo non vi è un amante
Che vantar possa l’amor costante;
L’amor paterno, più saldo e forte,
Ha i suoi confini nel sen di Morte;
Quel dei congiunti pur troppo è instabile;
È degli amici l’amor variabile;
Di non mancare, di non cangiarsi,
L’amor celeste può sol vantarsi.
Di nostra vita che sono i beni?
Che sono i miseri piacer terreni?
Non vi è altro bene che il ben celeste.
Ma quanto è scarso lo stuol seguace
Saggia donzella del vero amante,
Accesa l’anima d’amor costante,
Il Sommo Bene tracciando va,
Acceso ha il petto, che andar destina,
Per isfuggire dal secol nostro,
Dell’Umiltade nel sacro chiostro.
Non cura gli agi della famiglia,
Colla germana sol si consiglia,
E in cuor nutrendo la brama istessa,
Di sagre lane si veste anch’essa.
Risuoni il lido di laudi sante:
Viva l’egregia Maria Costante:
Cantino in coro le ninfe oneste.
Non vi è costanza se non celeste:
Ecco l’esempio che a noi ci dà
Ma son costretto di dargli fine,
Perché mi vincola lo scarso ingegno
(Già lo sapete) più d’un impegno.
Voi contentatevi di quel che ho detto;
Ed io la cesta con dolci aspetto.
Non mi crediate per questo avaro,
Perché il mio nume non è il danaro,
Ma un qualche segno d’aggradimento
Mi fa piacere, mi dà contento.
Molti son stati generosissimi:
Chi mi ha donato catene d’oro,
Chi tabacchiere di bel lavoro,
Pezze di seta chi mi ha donato,
Chi cere e zuccari, chi cioccolato;
E ancor del poco mi contentai,
Ma niente niente mi spiace assai,
E più mi spiacque la mala grazia
Di chi d’un libro non mi fe’ grazia,
E domandarglielo sendo costretto,
Né men risposemi ad un viglietto.