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POESIE IN LINGUA E IN DIALETTO DEL PERIODO VENEZIANO (1748 - 1762)
IN OCCASIONE CHE LA N. D. PIERINA QUERINI SOLENNEMENTE PROFESSA LA REGOLA DI SANT’AGOSTINO NEL REGIO MONISTERO DELLE VERGINI ASSUMENDO IL NOME DI MARIA GELTRUDE CAPITOLO
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IN OCCASIONE CHE LA N. D. PIERINA QUERINI SOLENNEMENTE
PROFESSA LA REGOLA DI SANT’AGOSTINO NEL REGIO MONISTERO
DELLE VERGINI ASSUMENDO IL NOME DI MARIA GELTRUDE
Da ridere mi vien, qualora io sento
Battere alla mia porta or questo, or quello,
A incaricarmi di un componimento;
E dirmi: Lo vorrei grazioso, e bello,
E lungo, e presto, e che poneste in uso
Adesso piucché mai testa e cervello.
Quanto più mi difendo e più mi scuso,
Cresce l’istanza, e quasi la violenza,
E guai a me se di cantar ricuso.
Ma talvolta darei in impazienza.
Che vi credete? Che abbiano i miei versi
In articulo mortis l’indulgenza?
De’ poeti, vi son purgati e tersi
Molto meglio di me, che vi faranno
Carmi d’ambrosia e nettare cospersi.
Il mio povero stil tutti lo sanno.
Spremi, spremi, che n’esce? Fanfaluche,
Magre facezie, che sapor non hanno.
E pur fuori mi caccian dalle buche,
E vogliono che imbratti, a mio dispetto,
Le carte per avvogliere le acciuche...
Una mattina stavami nel letto,
E una signora, amica di mia moglie,
Viene a rompermi il sonno benedetto.
Siede affannosa, ed il zendal si scioglie,
E dicemi : Goldoni, una premura
M’ha condotta per tempo a queste soglie.
Una dama rinchiusa in sacre mura...
Oh cospetto di Bacco, allor gridai,
Era meglio venir di notte oscura.
Dal sonno appena ho mal disgombri i rai;
Viene a darmi il buon dì con un tormento!
Indi sotto alla coltre io mi cacciai.
La cara moglie sottovoce i’ sento
Dire all’amica: Statevi quïeta,
Farò far mio marito a mio talento,
D’obbligarlo ho la via certa e segreta:
Scriverà, scriverà; prendo l’impegno:
Bella cosa esser moglie di un poeta!
Dice quell’altra: Amica, vi consegno
Questo picciolo foglio, in cui distesi
Quanto basta a spiegare il mio disegno.
Io fingea non capir; ma tutto intesi,
E fra me dissi: Oh via, con la consorte
So che i miei versi non saran mal spesi.
Odesi in quell’istante aprir le porte,
E veggio il servo colla cioccolata,
Che, a dir la verità, mi piace forte;
E mentre a me la chicchera vien data,
In vece di ciambella o zuccherino,
Veggo la carta sul tondin locata.
Apro, senza parlare, il bullettino,
Scritto vi trovo di Geltrude il nome,
E dei gran sacrifizio il dì vicino.
A tal lettura, non saprei dir come,
Di novello desio m’accesi il petto,
E accettai di cantar le dolci some.
E alla signora con gioviale aspetto:
Dunque, diss’io, la nobile fanciulla
Abbandona per sempre il patrio tetto?
E le ricchezze sue conta per nulla?
E l’esser sola di sì gran famiglia
All’eroico suo cuor sembra una frulla?
Non le sovvien che di Tommaso è figlia,
Di quel Tommaso che la patria onora?
Chi la guida a tal passo, e la consiglia?
Torno confuso a rintanarmi allora
Delle coltrici al peso, e il senso umano
Dalla filosofia soccorso implora.
Penso, e rifletto, che ogni bene è vano
Di questa vita, e che più d’oro e argento
Giova la pace non sperata in vano.
Oh quante donne lagrimare io sento
Fra le gemme e i tesori, e prender noia
Di ciò che promettea gaudio e contento!
L’anima, ch’è immortale, è quella gioia
Che riman sola fra cotanti beni,
Quando la carne si disciolga e muoia.
E che i giorni sien foschi, o sien sereni,
La vita è un punto, e il calcolo è infinito
Tra i piaceri celesti ed i terreni.
Scegliere a suo piacer potea il marito,
Nobile, doviziosa, alma donzella,
Ché a ognun caro saria sì gran partito.
Ma seriamente nel suo cor favella,
E dice: Ho d’antepor sposo mortale,
Se al talamo immortal sposo mi appella?
So che il mondo più stima chi più vale
Nell’accrescere i beni e la ricchezza,
E ad alto grado per industria sale.
Ed io, che cerco alla maggiore altezza
Della gloria salir fra i ben celesti,
Avrò nemici della mia allegrezza?
E adorna mi vorrian di ricche vesti,
Anziché della grazia del Signore?
Ah, non pensan così gli animi onesti.
In così dir, da insolito sopore
Preso, m’addormentai placidamente,
E sognai cose da recar stupore.
Vidi una turba di confusa gente,
Mossa da fini fra di lor distanti,
Di Geltrude parlar concordemente.
Sarti, crestaie, calzolai, mercanti
Dicean: Speriamo che uscirà del chiostro,
E vorrà nosco spendere i contanti,
E ricca la vedrem fra l’oro e l’ostro,
E di gemme splendente in ogni parte,
E l’util della pompa sarà nostro.
E mi parve veder da un’altra parte
Un ballerino di speranza pieno
D’ammaestrarla nella sua bell’arte.
Entrar mi parve in un cortil ripieno
Di cuochi, spenditori e credenzieri,
Delle nozze aspettando il dì sereno;
E donzelle e braccieri e camerieri
Che, desiosi di servir la dama,
Di speranza nutriano i lor pensieri.
Indi salgo una scala, che dirama
In due parti, ed arrivo a un vasto sito
Che in veneziano Portico si chiama.
Colà un drappel di cavalieri unito
Parvemi di vedere; e chi di loro
Si offre per cavalier, chi per marito.
E cantar odo mille voci in coro:
« Scendi, Cupido, dei tuoi strali armato,
Ed impiaga costei per tuo decoro. »
Ma il canto appena dalla turba alzato,
Una voce dal ciel gridò: Tacete;
E il palagio cadeo precipitato.
Al romore mi desto, e: Dove siete?
Dico alle donne, e più non le riveggo,
Ch’eran ite di fuori chete chete.
M’alzo in farsetto e su le piume io seggo,
E chiamo il servo al suon del campanello,
E penna e carta e calamaio i’ chieggo.
E senz’aver da struggermi il cervello
Per servire alla moglie ed all’amica,
Questo sogno mi parve buono e bello.
Lo stesi con pochissima fatica;
Lo consegnai all’ospite gentile:
Ite, le dissi, e il Ciel vi benedica;
E guardi me da un’occasion simile.