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POESIE IN LINGUA E IN DIALETTO DEL PERIODO VENEZIANO (1748 - 1762)
A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR LUIGI ZENO CAPITOLO
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A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR LUIGI ZENO
Promissio boni viri est obligatio;
Io non sono né buono, né cattivo,
Ergo faveat mihi aequalis ratio.
A prometter tal volta io son corrivo:
Ecco la mia bontà. Manco talora:
Della mia cattiveria ecco il motivo.
Ma non mancai una sol volta ancora
Senz’aver pronta del mancar la scusa,
Talor piantando una bugia sonora.
E faccio, nel ciò far, quello che s’usa,
Dando la colpa della mia mancanza
Ora al freddo, ora al caldo, ora alla Musa.
Però detesto la cattiva usanza,
E se ora manco all’Eccellenza Vostra,
Ho tal ragion che ogni ragione avanza.
Ella una sera all’Accademia nostra
Degl’Industriosi, dove il suo talento
Di facil metro e di saper fa mostra,
Chiedermi si degnò un componimento
Per la nobile sua santa sorella,
Che in sublime si chiude almo convento.
Ed io risposi in umile favella:
Mi onora, lo farò: sarà servita:
Anzi non mi può far grazia più bella.
S’Ella a cantar, s’Ella a compor m’invita,
Veggo che lo mio stil non Le dispiace;
Sento che la mia Musa è insuperbita.
Non son bravo, lo so, ma son sì audace
Che d’una di sì nobile famiglia
Ardirò di parlar pronto e loquace.
Il merito mi è noto della figlia,
E del padre sublime il cor, la mente,
Provido se comanda o se consiglia.
E tante cose mi tornaro in mente
Dell’eccelso magnifico casato,
Ch’era davver di favellarne ardente;
E dalla brama mi sentia spronato
Di dir qualcosa del di Lei talento,
Caro alle Muse e di scienza ornato;
E quantunque vedessi a qual cimento
Esponeva i miei carmi, a Lei parlando,
A Lei, poeta che ha valor per cento,
Sia forza del dovere o del comando,
Mi animai tanto, e di desio mi accesi,
Che a casa andiedi, posso dir, saltando.
Ma appena, signor mio, le scale ascesi,
Vidi da un fante un bollettin portato,
Che poco o nulla su le prime intesi.
Vidi che alle Cazzude er’ io citato,
Dove soglion chiamarsi i debitori
Quando in tempo miglior non han pagato.
Dissi: che von da me questi signori?
Non crederei che fossero tansate
Le campagne degli arcadi Pastori :
Ché, per grazia del Ciel, le nostre entrate
Dal Custode maggior, per uno scudo,
Ci son da Roma in partibus donate.
Penso e ripenso, ed alla fin conchiudo:
Domani andrò del Magistrato innanti,
E saprò quel che a indovinare or sudo.
Vo la mattina a interrogare i fanti:
Chi mi vuol, chi mi cita, in che ho mancato?
Ed avea soggezion dei circostanti.
Ma finalmente al Tribunale entrato,
Sento ch’io son di tansa debitore
Per il titol ch’io porto d’avvocato.
Il cassier, mio padrone e protettore,
Fa leggere il decreto a un certo tale
Che mi pareva di cattivo umore.
Del Giudice mi volgo al tribunale,
Dico: Eccellenza, colla spada al fianco
Vegga l’avvocatura a che mi vale.
Ei mi rispose: Al mio dover non manco:
Questi son Magistrati esecutori.
(Io non so se venissi rosso o bianco).
Ite, soggiunse, ai vostri superiori;
Se esser volete dalla tansa esente,
Dal ruol forense fatevi trar fuori.
Vi accorda un mese il Principe clemente:
O la tansa pagar che vi è fissata,
O rinunziare il titol d’Eccellente.
Mi confuse così questa imbasciata,
Ch’io non trovava dell’uscir la via,
E col capo la porta ho riscontrata.
Vegga Vostra Eccellenza, in cortesia,
Se con questo pallin che ho nella testa,
Posso al canto destar la Musa mia.
Ella dirà: Che gran disgrazia è questa?
Se la tansa pagar non acconsenti,
Esci dal ruolo. La Giustizia è onesta.
Ma io che fino ad or presso le genti
Questo titol vantai sì decoroso,
Non vorrei mi dicessero: Tu menti.
Gisse ai Conservatori delle Leggi
E vi trovasse il nome mio corroso.
Quelli che stan di tal governo ai seggi,
Credo che tanseranno il Palazzista,
Non un uomo che canti e che verseggi.
E se son io degli Avvocati in lista,
Mi tansino a misura del profitto
Ch’io fo da curïal o da leggista.
Se poi il mio nome che lassuso è scritto,
Ingombra o disonora la tabella,
Che mi tolgano pure ogni diritto.
Ma tutto il mondo la mia Patria appella
Madre pietosa de’ figliuoli suoi,
E per tanta pietà Venezia è bella.
Eccellenza padron, narrate voi
Questo mio caso al genitor cortese,
Chiaro lume de’ padri e degli eroi.
Ei che può tanto nel natio paese,
Faccia ch’io sia degli Avvocati al ruolo,
Se util non ho, senza soffrir le spese.
Allora sì voi mi vedrete a volo
Prender la penna coraggioso in mano,
E alzar la voce dolcemente al polo.
Canterò quell’amor santo, sovrano,
Che accese il petto della suora vostra,
Sprezzando il mondo lusinghiero insano:
Vergine che è l’onor dell’età nostra,
Saggia, prudente, docile, amorosa,
Che sa, che intende, e il suo saper non mostra:
Vergine forte, vergin poderosa
Che calpesta ricchezze, agi e fortuna,
Io non avrò difficoltade alcuna,
Coll’animo sereno e il cuor quieto,
Di canti empir la mobile Laguna.
E renderò collo mio stil faceto
Allegro il giorno che la candidata
Pronunzia l’immutabile decreto.
Che diriano di me, se frammischiata
Alle laudi di vergine sublime,
Ed io, se qualche cosa ho che mi opprime,
In qualunque occasion che parli o scriva,
Sfogar soglio la pena in prosa o in rime:
Perché tal volta lo mio sfogo arriva
All’orecchio d’alcun che può, se vuole,
Farmi del bene, e che contento io viva.
Ma in occasion che la beata prole
Di un sì gran padre da ciascun si onora,
Mescere non degg’io sciocche parole.
Dunque a Vostra Eccellenza umile implora
Perdon mia Musa, se per or non canta.
Canterò forse più giulivo allora,
Quando degno sarò di grazia tanta.