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POESIE IN LINGUA E IN DIALETTO DEL PERIODO VENEZIANO (1748 - 1762)
PER LE NOZZE DI S. E. IL SIGNOR MARCHESE GIOVANNI M.A FILIPPO RANGONE CON S. E. LA SIG. MARCHESA DONNA MARIA LUIGIA DEL SAGRO ROM. IMPERO PRINCIPESSA GONZAGA INNESTO. AL SIGNOR ABATE GIUSEPPE FERRARI SEGRETARIO DELLO SPOSO
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PER LE NOZZE DI S. E. IL SIGNOR MARCHESE GIOVANNI M.A FILIPPO RANGONE
CON S. E. LA SIG. MARCHESA DONNA MARIA LUIGIA DEL SAGRO ROM. IMPERO
GIUSEPPE FERRARI SEGRETARIO DELLO SPOSO
I’ fitta proprio me l’aveva in testa:
Chi vuol sposarsi, sposisi con Dio,
E che facciano pur baldoria e festa.
E se alcuno venisse a l’uscio mio
A chieder versi per messere Imene,
Dir: Talia tratto, non Euterpe o Clio.
Finor pur troppo mi stuccar ben bene
Nozze, e poi nozze, monache, e dottori,
E carte mille di strambotti ho piene.
È ver ch’ i’ n’ebbi per mercede allori,
Ma da le bacche macinate in vano
Util farina non potei trar fuori.
Onde, dicea, se il popolo inumano
Nega cambiar coi lauri le derrate,
Meglio è lo starsi con le mani in mano,
E Dio volesse ch’al mestier del vate
Quello avess’io del curial preposto;
O per me’ dire, fossi prete o frate.
Astrea più spesso fa girar l’arrosto,
E il cappuccio, la chierca e la cocolla
Tempra il gennaio, e mitiga l’agosto.
Io, che d’Orlando non succhiai l’ampolla,
Lasciai le frutta per raccor le fronde,
E cambiato ho il fagian con la cipolla.
Ma pur quel poco ch’al disìo risponde,
Porto mi viene da Talia sol tanto;
Talia mel reca, e non lo spero altronde.
Che se per altro m’affatico e canto,
Pago lo scotto e digiunar convienimi,
Ché non sazia e non nutre il nettar santo.
E questa appunto è la ragion che femmi
A i sonetti dar bando e a le canzone,
E mi rintano se a parlarne un viemmi.
Or, sia forza d’impulso o d’attrazione,
Sentomi spinto da un potere ignoto,
E prevale al rigor la tentazione.
Per te, Ferrari, ho lacerato il voto:
A le guagnele, tu me l’ha’ accoccata,
E in van digrigno e dal lacciuol mi scuoto.
Chi diacine la lettra ti ha dettata
Del dì ventisettesimo di maggio,
Ond’aimi al core tal malia formata?
Nello tuo scritto si assapora un saggio
De l’eloquenza de l’eroe d’Arpino,
A cui fan tutti gli oratori omaggio.
Oh colto stile epistolar, divino,
Che narra, e chiede, e persuade, e sforza!
Oh prisco onor del popolo latino!
I’ non mi fermo a vagheggiar la scorza
De’ periodi sonori ed eleganti;
Vo del midollo a penetrar la forza.
Tu, sagace orator, ponesti inanti
Apparato di laudi ad un poeta,
Per invaghirlo de’ tessuti incanti,
Ché, per quanto modestia a bassa meta
L’uom per sistema o per natura inchini,
Laude fu sempre dolce cosa, e lieta.
Gli sfortunati adorator di Pindo,
Pur che sien detti i carmi lor divini;
Ed io, che di Clarice e di Florindo
Canto, e non di Rinaldo o Bradamante,
Farmi noto desio dal Mauro a l’Indo.
E chi mi loda per aver cotante
Sconce, lubriche Scene a Italia tolte,
Quel più mi dà, di cui mi resi ansante.
Le rose in prima del tuo foglio ho colte,
E quando giunsi ad afferrar le spine,
Trovai le punte fra il coton rivolte.
Nozze m’annunci, nozze peregrine,
Onor del Mincio, gloria del Panaro,
Splendor de l’ampio italico confine.
Giovani donne, che di grazia avaro
Amor vi sembra, e lo prendete a sdegno,
Mirate lui de’ maggior numi al paro.
Ma v’intendo, v’intendo a più d’un segno:
Non conoscete in quel fanciullo Amore,
E, ch’ei non fosse, mettereste pegno.
Ei cangia aspetto de le genti in core,
Siccome il prisma contrapposto al sole
Suol, se si aggiri, variar colore.
L’innocente fanciul vuole e disvuole
Col voler de le genti, e non avvince
L’arbitrio sommo dell’umana prole.
Qualor ne l’alma a contrastar comince
Debol ragione e passion feroce,
Combattuto garzon cede a chi vince.
Se Amor rallegra, o se tormenta e nuoce,
Colpa non è di lui, ma de l’impero
Che seco il tragge ad ubbidir veloce.
Miratel là, come pomposo, altero,
Sciolta la benda che gl’ingombra il ciglio.
De la gloria e d’onor calca il sentiero.
Donne, cotesto di Ciprigna è il figlio:
Nol crederete, poi che stran vi sembra
Mirarlo in mezzo d’onestà e consiglio.
Chi di voi scorto da follia il rimembra,
Non si dà pace che Cupido ostenti
Sì accorto senno in sì soavi membra.
L’arco dov’è? dove le faci ardenti?
D’amor la guerra chi converse in pace?
Tacete, o donne, vo’ narrar portenti.
Miracolo, Ferrari, il stuolo tace
De le garrule donne; questa fiata
Curïoso desio vince il loquace.
Tempro la cetra, che pendea scordata:
Odano lo mio canto uomini e dei,
M’oda de’ vati la region beata.
Tralcio d’antica glorïosa pianta,
Amor de’ numi, e de la patria onore,
Di vergine immortal dolcezza tanta,
Ch’ebbro di gioia e di letizia ha il core,
E per lo calle istesso
Donde partio de la donzella il foco,
Amor s’aperse a nuove fiamme il loco.
Di gloria, di virtù, di fasti e pregi,
Di puro sangue e d’innocenti affetti!
Simili tanto sono
Le sorti e gli usi de’ duo sposi egregi,
Qual da fonte un sol rio scorre in due letti.
Nel doppio raggio che due salme accende,
Chi più reca di luce o più ne rende.
Chi l’età prische ha in mente,
De’ Gonzaghi e Rangon l’origin perde
Fra tempi immemorabili e confusi;
Nei tralci illustri il primo onor rinverde
Di padre in figlio gli alti genii infusi.
Scemar di forza, e infievolir con gli anni;
Risparmia il tempo a sì gran piante i danni.
De l’avvenir l’impenetrabil soglia,
Ond’io canti il piacer dei dì venturi,
Apriran gli occhi de la fragil spoglia
Quei che or son teco nudi spirti e puri;
Di Luigia avran forma i pargoletti,
Italia nostra a confortare eletti.
Svelar misteri e presagir venture
È a noi poeti, e non altrui, concesso.
Il tuo destin fra quelle cifre oscure
Legger mi è dato: odilo in carmi espresso:
Fra i lauri Estensi del Panaro ai lidi
Gli Ercoli, gli Ughi, gli Uguccioni e i Guidi.
Co’ primi vati a sostener paraggio,
Su lo sterile pié di prun selvaggio.
Abbiati sol, qual mi nascesti in core.
Parlate, o donne, e benedite Amore.