IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
POESIE IN LINGUA E IN DIALETTO DEL PERIODO VENEZIANO (1748 - 1762)
IL BURCHIELLO DI PADOVA
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
IL BURCHIELLO DI PADOVA303
Musa, cantiam del padovan Burchiello
In cui per Brenta viaggiasi bel bello,
Dal gel difesi e dall’estiva arsura.
Amistà si contrae con questo e quello,
E alla curiosità si dà pastura;
Passasi con piacer di loco in loco,
E per lungo cammin si spende poco.
Parlo di quel che a noleggiar si affaccia
Pel tragitto di Padoa ogni mattina;
Non già della notturna, ampia barcaccia,
Di storpi e ciechi e barattier sentina,
Su cui stridente orribile vociaccia
Suol dal Ponte gridar sino a Fusina:
La va via, la va via; fin ch’ella è carca
D’animai che non fur chiusi nell’arca.
Parlo di quel vaghissimo naviglio
Di specchi, e intagli, e di pitture ornato,
Che ogni venti minuti avanza un miglio,
Da buon rimurchio e da’ cavai tirato;
In cui senza timor, senza periglio,
A sedere o a dormir può starsi agiato,
Ed avvi uno stanzin per ordinario
Con quel che alle bisogna è necessario.
In sì gentile galleria ambulante
Con piacer mi trovai più di una volta,
E vidi e intesi cose varie e tante,
Che ne ho fatto e ne serbo una ricolta.
Talora mi abbattei con genti sante,
Talor con gente rigogliosa e stolta;
Ed io, che di parlar pompa non faccio,
Se il parlar non mi giova, ascolto e taccio.
Nella scorsa stagion ridente estiva,
Che a venerar la Sacra Lingua invita304,
Nel corredato navicel men giva,
Ad onesto piacer pietade unita.
Chi leggea, chi parlava e chi dormiva,
Chi faceva alle carte una partita;
Ed alcuni fanciulli eransi uniti,
Che col loro gracchiar ci avean storditi.
Di uno di loro il genitor giocava.
Dice al figlio: Sta cheto; ed ei fa peggio.
Per dargli un sergozzon la mano alzava;
Sbalzar la madre e inviperirsi io veggio.
Ferma, al marito, e non menar, gridava;
Aimè, se ’l picchi, il suo dolor preveggio;
(Viscere mie!) se lagrimar mel fai,
Sì, da donna d’onor, ti pentirai.
Trema il consorte alla biastema orrenda,
E ingoia il tosco alle sue labbra usato,
Prega il compagno che a giocare attenda,
E gioca, e freme, e si dimena irato.
Grida il caro figliuol: Vo’ la merenda,
E vo’ un mazzo di carte, e vo’ un ducato;
Gioca mio padre, vo’ giocare anch’io;
E la donna d’onor: Sì, figliuol mio.
Gli dà carte e danaro, ed ei s’ingegna
Di giocar coi compagni alla bassetta.
La buona madre al caro figlio insegna,
E si duol che il meschino abbia disdetta.
Lo sbancano gli amici, ed ei si sdegna,
E lor dice: Vi venga una saetta.
Getta le carte al suoi, slancia un cospetto,
E la madre lo abbraccia, e fa un ghignetto.
S’ode, a scandalo tal, s’ode un bisbiglio,
E il padre per impegno il fren discioglie.
Alza la canna per menare al figlio,
Ed il colpo fatal tocca alla moglie.
Fa di sangue la donna il suol vermiglio,
E, per grazia di Dio, da noi si toglie.
Chiudesi in camerin col figlio accanto.
Benedetto bastone! oh baston santo!
Stassi il marito fra timore e sdegno:
Sdegno pel figlio e tema della sposa,
Che se adoprò per avventura il legno,
Da lei si aspetta qualche peggior cosa.
Alcun dei passeggier prende l’impegno
Di calmargli la bile in sen spumosa;
Altri dice: Parlate; altri: Tacete;
Chi gli dice: Soffrite; e chi: Battete.
Io dico: No; per carità non fate,
Ché il mestier d’aguzzino è cosa dura,
E una femmina tal, se l’accoppate,
Sarà sempre caparbia per natura.
La moglie vostra taroccar lasciate,
E del figlio, signor, prendete cura,
Che s’ei riescirà scorretto e rio,
Conto per lui ne renderete a Dio.
Risponde il galantuom: Pur troppo è vero;
E ne ho rossore, e ne ho rimorso e pena.
Il figliuol mio naturalmente è fiero,
E l’amor della madre a peggio il mena.
Chiuderlo in un collegio ebbi in pensiero,
Ma la mia casa di disgrazie è piena.
Dell’ignoranza sua mi crucio e rodo:
Vorrei farlo educar, ma non ho il modo.
Soggiunsi allor: Con provvidenza il Cielo
Gli uomini di soccorso ha premuniti.
Noto non vi è, con qual amore e zelo
Sono i figli educati ai Gesuiti?
Nelle massime sante del Vangelo
E in varie facoltà sono istruiti,
E condotti d’onor pel buon sentiero
Senza che costi ai genitori un zero.
Di questa santa Religion divisi
Sono i pesi, le cure e le mansioni:
Altri nel magistral pergamo arsisi
A vincer alme e convertir nazioni,
Ed altri al santo tribunal stan fisi
Di penitenza; altri alle pie funzioni;
Ed altri ad instruir di mano in mano
Nelle scienze l’intelletto umano.
Né col precetto e col rigor soltanto
Far vïolenza all’imbecille ingegno,
Ma con soave industrïoso incanto
L’arte han di por la gioventù in impegno:
Dando ai garzon, che han sopra gli altri il vanto,
Di saper, di bontà, d’onore un segno,
Fan che ciascun di meritare agogna,
E ne ha lo sciocco e l’importun vergogna.
Di provocare e di emular si affretta
Lo Stuol cartaginese il Stuol romano,
E con piacer la gran giornata aspetta
In pubblico di udir chi fu sovrano,
E onorato dal suon della trombetta
Sentir suo nome, e andar col premio in mano,
E a Scuola maggior vedersi alzato,
Fra gli Ottimati per onor stampato.
E le dotte Accademie a poco a poco
Delle Lettre l’amor destano in seno,
E chi non arde d’apollineo foco,
A discernere il buon s’avvezza almeno.
E giova espor la gioventute in loco
Da superar di soggezione il freno,
Perché in pubblico un dì posta all’impegno,
Non tradisca il timor l’arte e l’ingegno.
Quanto di bene all’intelletto apporta
Lo scolastico stil de’ Padri eletti,
Tanto a vera pietà l’alme conforta,
E invigorisce a divozione i petti.
Nei dì festivi ogni fanciul si porta
Nei concordi Oratorii, a Dio diletti,
E a salmeggiare e a meditare apprende,
E le sante dottrine ascolta e intende.
Ma chi brama ad un figlio accrescer fregio,
può supplir alle mediocri spese,
Lo consegni de’ Padri ad un collegio
Nel patrio cielo, o in forastier paese.
Ivi non sol delle Scïenze il pregio,
Ma avrà i costumi e le bell’Arti apprese;
E alla patria verrà cortese, umano,
Coi doveri dell’uomo e del cristiano.
Poiché la saggia Compagnia prudente
La civiltà colla dottrina ha unita,
E non apre la porta ad ogni gente,
E i buoni accoglie, ed i migliori invita;
Ma chi a vita esemplar non acconsente,
Facile trova al dipartir l’uscita,
E a quei che poco onor fanno al consorzio,
Nelle forme s’intima il lor divorzio.
Stavasi intento al mio parlar sincero
L’afflitto padre, e: Dio volesse, ei dice,
Che prendesse il mio figlio altro sentiero
Con questa santa educazion felice.
Tornar in breve alle acque salse io spero:
Farò quel che mi giova, e quel che lice.
Gracchi la madre pur, se vuol gracchiare,
O ha da metter cervello, o ha da crepare.
In questo s’ode un mormorio da poppa,
E apresi lo stanzin violentemente.
E il marito temeva in sulla groppa
Aver la moglie di furore ardente.
S’alza tremante, e ver la prua galoppa,
E rimpiattasi al tergo della gente;
Ma il falso allarme ha con piacer scoperto:
Fu lo stanzin dai remurchianti aperto.
Chiedean la mancia, per aver guidato
Sino alla terra ferma il bel naviglio.
E il tremante babbeo, lo sguardo alzato,
Vede gire all’ostel la madre e i l figlio.
Grida: Olà, dove andate? Il ciglio irato
Della donna lo rende un vil coniglio,
Ed osserva il garzon che mangia e beve;
Ei freme invano, e tollerar sel deve.
Eravi nel Burchiel certa signora
Che avea gentile e venerando aspetto :
Ora, disse, che l’altra ita è di fuora,
Vo’ la pena sfogar che m’ange il petto;
Donna simil non ho veduta ancora,
Detto sia col dovuto umil rispetto:
Ma s’ella frequentasse i Gesuiti,
Tali non useria costumi arditi.
Parlo per esperienza: io pur son nata
Facile per natura a prender foco,
Ma un saggio direttor mi ha costumata
A reprimere il caldo a poco a poco.
Qualor mi sento a delirar portata,
Di Gesù il nome in mio soccorso invoco;
E rammentando i salutar precetti,
Ragion mi vale a regolar gli affetti.
Oh con qual arte il confessor mio santo
Cambiommi il cor veracemente in seno!
Egli non mi atterri; mi feo soltanto
Ravvisar della colpa il rio veleno,
E dolcemente mi dispose al pianto,
E agli appetiti e alle passion por freno:
Arte che sprona a detestar l’inganno,
Più per amor, che per timor del danno.
E di quest’arte il Gesuita abbonda,
Che al zel congiunta ha esperienza e lume,
E il cuore uman colla ragion circonda,
E introduce il rossor del rio costume.
Nelle minaccie e nel rigor non fonda
Il rispetto dovuto al sacro Nume,
Ma sulla santa imitazion cristiana:
Ché la legge di Cristo è legge umana.
Volea più dir, ma a rientrar spronati
Furono i passeggier dai marinari,
E la madre e il garzone in barca entrati,
Si converse il discorso in altri affari.
Io vicin mi trovai di due soldati,
Ricchi più di valor che di danari;
Delle guerre si parla, e inviperito
Ciascheduno difende il suo partito.
Chi loda il Prusso e chi l’Austriaco esalta,
Chi dispone gli acquisti e la vittoria,
Chi colla voce l’inimico assalta,
Chi le perdite ancor converte in gloria,
Chi le carote per costume appalta,
Chi nega i fatti della conta istoria,
Chi l’Oder, dice, la Sassonia bagna,
Chi la Vistula crede in Alemagna.
Uno dei due guerrier, ch’ i’ aveva accanto,
Alza la voce, e in guisa tal ragiona:
Voi ch’esaltate della guerra il vanto,
Perché non ite a seguitar Bellona?
Col capo rotto, e con un braccio infranto,
Sapreste se il pugnar sia cosa buona.
Bello è di guerra il favellar sedendo:
Io, che ci fui, le sue bellezze intendo.
La morte è il men del militar mestiere:
Una volta si more, ed è finita.
Molto peggio di morte è il non avere
Riposo mai, finché si resta in vita,
E il dormir sulla terra, e l’acqua bere
Qualche volta fetente imputridita,
E soffrire nel verno il crudo gelo,
E nella state il gran bollor del cielo.
Meglio per me, se nella prima etate
A studiare di cor mi avessi dato.
Meglio per me, s’io fossi prete o frate,
E meglio ancor fra i Gesuiti entrato.
Tante disgrazie non avrei passate,
E sarei ben pasciuto e ben trattato,
E con poca fatica e leggier stento
Godrei gli onori e viverei contento.
Chiesi licenza al militar poltrone
Di poter dir. Me la concesse in pace. Dissi:
Se il mestier della guerra a voi non piace:
Ma chi vive per altro in religione,
Non crediate si stia nella bombace.
Io degli altri non so; ma dir mi eleggo
Dei Gesuiti quel che intendo e veggo.
Essi non vivon già d’erbe e fagiuoli,
Mangiano, come noi, le carni usate;
E fra i claustrali non son essi i soli,
Che abbiano in società mense onorate.
Non crediate però, che i loro orciuoli
Empiansi di vivande prelibate.
Nelle Comunità si osservan gli usi,
E ognun si guarda d’introdurre abusi.
Sembra a voi che sien ricchi? È ver, lo sono;
Ma non ne fan depositario il cuoco,
Usi a serbar della pietade il dono
Al sagro tempio o degli studi al loco.
Al re del Ciel, che ha nella Chiesa il trono,
Si sagrifica tutto, e tutto è poco,
E a Gesù chi consacra i doni sui,
Certo può star che non li gode altrui.
Chi mai può dir che aviditade impegni
Il Gesuita a procacciar divoti,
S’egli non puote oltrepassare i segni
Fissati già dal vincolo dei voti?
Mirate i Padri in Religion più degni,
Mirate quei che pel saper son noti,
E osservate fra lor se questo o quello
Abbia stanza miglior, miglior mantello.
Bevon, dice talun, la cioccolata.
È vero, è ver; chi non la bee, suo danno.
Non è bevanda al claustral vietata;
La beono pure i Cappuccin, se l’hanno.
Dagli amici o parenti è lor donata,
E a berla in casa di verun non vanno;
E provista se sia dal rettor loro,
Mertano i loro studii un tal ristoro.
Dite, se mai vedeste un Gesuita
Ad un convito, o a un popolar ridotto;
Dite, se avete di tal gente udita
Cosa che v’abbia a mormorare indotto.
Non v’ha persona da quel ceto uscita,
Per quanto sia di genere corrotto,
Che vaglia a dimostrar con fondamento
Ch’essi copran con arte il mal talento.
Ma qual arte saria strana, infelice,
Fingere e simular senza mercede?
Se al Gesuita migliorar non lice,
Stolto è colui che l’artifizio crede:
Vera virtù, che ha nel suo cuor radice,
L’anima per la Chiesa e per la Fede,
E i beni eterni, collocati in Cielo,
Destano in lui la vigilanza e il zelo.
Credete voi che dotta gente e accorta
Siavi fra lor? Voi mi direte: Il credo.
Dunque, dich’io, se ambizïon li porta,
Perché in un chiostro affaticar li vedo?
A pochi è chiusa dell’uscir la porta:
Chieder ponno, o pigliarsi il lor congedo,
E vi restano tanti, e son contenti
Lasciar le dignità, gli ori e gli argenti.
Oh santa Verità! tu fosti quella
Che mi fece parlar come ho parlato,
Tu fermasti nel gozzo la favella
Oh santa Verità! quanto sei bella!
Tu risplendi e trionfi in ogni lato,
E per quanto talun tenti offuscarti,
Veduta sei sopra le nubi alzarti.
Eccoci giunti alla piacevol Mira305,
Di bei giardini e di palagi adorna.
S’esce fuor del naviglio, e si respira,
Si passeggia, si pranza e poi si torna.
Il famoso ronzin si attacca e tira,
E per la Brenta il navicel s’inforna:
Chi si mette a fumar, chi canta o suona,
E chi del tristo desinar ragiona.
Leggeva un libro un vecchiarel dabbene,
Rannicchiato in un canto del Burchiello,
E, com’è l’uso, volontà mi viene
Di domandargli: Che bel libro è quello?
Ei si leva gli occhiai che al naso tiene,
Cavasi gentilmente il suo cappello:
Questo, dicendo, è il Bourdaloue francese,
Bravo predicator del suo paese.
Io dissi allor: Tutta la terra è piena
D’uomini illustri dal Gesù sortiti,
E nell’arte oratoria han cotal vena
Che arbitri son degli uditor contriti.
Argomenti robusti a frase amena
Mirabilmente han collo studio uniti,
Ed il santo Vangel spargono intorno,
Di grazie mille e di chiarezza adorno.
La parola di Dio semplice e pura
Basta, egli è ver, per adempir l’impegno;
Ma il superbo mortal sentir non cura
Favellare senz’arte e senza ingegno.
Quindi il saggio orator tenta e procura
L’alme allettar, per ricondurle al segno;
E per vincere i cuori e gl’intelletti,
Sembran dal Cielo i Gesuiti eletti.
Né intendo già che di lor soli il vanto
Abbiasi a dir, ch’altri vi sono egregi
Sacri ministri dell’Oracol santo,
Ch’han d’eloquenza e robustezza i pregi;
Ma soffrire non so, di tanto in tanto
Che l’onorata Compagnia si sfregi,
E che per esaltar Tizio o Sempronio
Dicasi d’essa il falso testimonio.
Io dico a quel che dice mal d’altrui:
Giudico te dal tuo parlare istesso.
Se deturpi il fratel coi labbri tui,
Il tuo perfido cor dimostri espresso.
Chi ha le macchie nel sen, peggio per lui,
Ma i difetti scoprir non è permesso;
E il prossimo insultar con maldicenza,
Carità non si chiama: è un’insolenza.
S’udiro ai detti miei batter le mani,
Che al marito commise atti villani,
E la vidi cambiar sembiante e voce.
O santa Verità, de’ petti umani
Ora conforto, or testimonio atroce!
Tu facesti il prodigio, e vidi in tutti
A germogliar di tua possanza i frutti.
D’acque sonanti un mormorio si sente:
Esco all’aperto; e riconosco il Dolo306,
E dall’alto impinguar veggo un torrente
D’acque rinchiuse, e pareggiarle al suolo,
E la macchina ammiro agevolmente
Retta al suo fin dagli argani del Molo,
Da cui I’acqua si serba e si sostenta307,
Per far perenne ai passeggier la Brenta.
Fin ch’oltre si apra al navicel l’uscita,
L’abitato terren ciascuno ascende.
E chi al caffè, chi alla taverna invita,
E chi bada in un canto a sue faccende.
Indi la turba nuovamente unita,
Per seguire il cammino, in barca scende;
E con noi s’accoppiò dell’altra gente,
Fra’ quali vi era un Padovan studente.
Tosto si fer le cerimonie usate:
Riverisco: Padron: Servitor loro:
Abbiam delle bellissime giornate:
Oh che caldo! la state è il mio martoro.
Come va la campagna? Oimè! seccate
Son le biade, e varranno a peso d’oro.
A che ora a Padoa arriverem? chi sa?
Tira poco il cavallo; eppur si va.
Il giovane scolar, che avea desire
Di ostentar nel Burchiello un bel talento,
Principia a ragionar, principia a dire
Cento cose indigeste in un momento,
Ed al solito poi si va a finire
Nell’odïerno misero argomento,
Tratto dal lezzo di più libri usciti
Contro la Religion de’ Gesuiti.
Il guerriero già noto : Olà tacete,
Dicegli in tuono militare ardito;
Se parlare più oltre animo avrete,
Corpo di Marte! vi farò pentito.
Questi (additando me), se nol sapete,
Mi ha della Compagnia bene instruito.
Soldato io son, ma le ragioni intendo,
E col brando, se occorre, il ver difendo.
Fra la tema e l’ardire acceso in volto,
Il sapiente risponde all’uom focoso:
S’io dico il mio pensier libero e sciolto,
Una rissa incontrar non son bramoso.
Indi a me il guardo ed il parlar rivolto,
Disse: Chi siete voi, che valoroso
Difendete de’ Padri il buon concetto?
Siete loro terziario, o lor soggetto?
All’ardito parlar non mi confondo,
Ché ho sempre meco Verità in aiuto.
Lor terziario non sono, io gli rispondo,
Né dai loro stipendi io son pasciuto:
Sono un uomo d’onor, son noto al mondo,
Il mio stile sincero è conosciuto.
Interromper voleami il labbro audace;
Il soldato gliel vieta, ei trema, e tace.
Ed io seguito a dir: Difficil cosa
Non è il tesser per astio ingiurie ed onte.
E contro la vulgar turba rissosa
La Compagnia le sue difese ha pronte.
Ma pur troppo Natura, al ben ritrosa,
A ber sen va della malizia al fonte,
E per quanto valore abbia Innocenza,
Sempre le piaga il sen la Maldicenza.
Guardimi Dio, che penetrare io voglia
Nel vasto mar delle quistion destate.
Chi di saper la verità s’invoglia,
In dotti libri ha le ragion stampate;
Chi d’interesse e passïon si spoglia,
E de’ partiti ha le ragion pesate,
Dalle prove, dai sensi e le parole
Chiara vedrà la verità qual sole.
Io dirò sol che tutto il mondo è pieno
Di dotti scritti ed ortodossi esempi
Dell’alma Compagnia, che il rio veleno
Distrusse ognor dei contumaci ed empi;
Che han di sangue e sudor sparso il terreno
Per la Fé, per l’onor de’ sacri tempii;
E che agl’infimi studii e ai sommi impegni
San del pari adattar gli usi e gl’ingegni.
E siccome ai Fratei prescritto è il peso
Da quei che han loco nella pia Reggenza,
Mirasi ognuno a quell’uffizio inteso
Ver cui scopresi in lui miglior tendenza.
Dal dover spinto e dall’onore acceso,
E da santa, esemplar, comun fervenza,
Vedi ciascun della sua messe il frutto
Raccor felice, e riescire in tutto.
Quanti in filosofia saggi maestri
Sul sistema miglior precetti han scritto!
Quanti in teologia sublimi e destri
Hanno il rio serpe d’eresia sconfitto!
Quanti i mari profondi e i mondi alpestri
Passeggiaro con piè veloce, invitto,
E a profitto dell’uom si preser cura
I segreti svelar della natura!
Se d’ascetici libri il mondo ha brama,
Chi più di lor ne ha pubblicati a iosa?
E chi meglio sa dir come Dio s’ama,
E quanto il Santo Amor sia dolce cosa?
Fra il mondo e il Ciel che occultamente chiama,
Chi sa meglio scoprir la via dubbiosa,
E coi santi esercizii e le Missioni
Chi giovò più di loro alle nazioni?
E chi più i matematici e i sovrani
Geometrici assïomi a spiegar prese?
E chi meglio di lor dei corpi umani
E degli spirti la natura intese?
Le notizie d’Europa al bel paese,
E unir l’epoche oscure, e fu lor gloria
Purgare i fatti ed illustrar l’Istoria.
E negli ozii per fin, se ozio può darsi
Fra tante cure ed esercizii tanti,
Chi più di lor sa dolcemente alzarsi
Al grato suon degli apollinei canti?
I carmi, lor, che per l’Italia han sparsi,
Recano a noi sopra i stranieri i vanti,
E lor sceniche azion sacre, erudite,
Han le penne severe ammutolite.
Che volete di più? mirate in volto,
Ponderate negli atti un Gesuita.
Dio si ravvisa nel suo sen raccolto,
Tutto spira l’amor di santa vita.
Ed uom saravvi scostumato e stolto
Che lingua mova a denigrarlo ardita?
Lo Scolare vid’io mesto e compunto;
Ma il Burchiello di Padoa a Padoa è giunto.
Tutti si congedaro, e un testimonio
Tutti mi dier che fu il mio dir laudato.
Rassegnossi la moglie al matrimonio,
La mano ha il figlio al genitor baciato.
Io corro immantinente a Sant’Antonio,
Dio ringraziando pel poter mi ha dato,
E il nome di Gesù col cuore appello,
E consacro ai suoi figli il mio Burchiello.