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L’OMBRA DI TITO LIVIO
IN OCCASIONE DEL PUBBLICO INGRESSO ALLA DIGNITÀ PROCURATORIA DI SUA ECCELLENZA IL SIG. TOMMASO QUERINI PROCURATOR DI SAN MARCO STANZE
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IN OCCASIONE DEL PUBBLICO INGRESSO ALLA DIGNITÀ
PROCURATORIA DI SUA ECCELLENZA IL SIG. TOMMASO
QUERINI PROCURATOR DI SAN MARCO
Alto signor, cui della gloria al segno
Merto conduce, e della patria amore,
Odi, sforzo non già di colto ingegno,
Ma l’umil nata verità dal cuore;
Sia il dover, sia la brama, o sia l’impegno,
Per te m’accese inusitato ardore,
Ardor che m’empie di furor cotanto,
Che arcane cose e non più dette io canto.
Prestami orecchio, e non negar credenza,
Col sospetto de’ vati, al dir sincero:
Sdegno d’adulazion la vil scïenza,
E fra simboli e carmi adombro il vero.
Odi a me qual s’offrio l’alma apparenza
Del Genio augusto dell’Adriaco Impero,
E qual guidommi sull’euganea tomba
Del prisco Livio a risvegliar la tromba.
Celere ver l’occaso, e rubicondo,
Spronava il sole a’ suoi destrieri il dorso,
Per far più bello di sua luce il mondo,
Al nuovo dì rinnovellando il corso,
Quel fausto dì, cui festeggiar giocondo
Del popolo dovea l’ampio concorso,
Per te mirar d’ostro novel fregiato,
A dignità procuratoria alzato.
L’eccelsa pompa non er’io bramoso
Men degli altri mirar del calle adorno,
Ito per tempo a procacciar riposo
Per esser desto all’apparir del giorno.
Veggo il Genio immortal dal fondo algoso
Alzar lo capo, e batter l’ali intorno,
E me, in dolce sopor disteso e solo,
Prender per mano, e condur seco a volo.
Ratto m’avveggio di lontan passarmi
Sotto gli occhi la Brenta e il piano aprico
Dell’euganeo recinto, ed esser parmi
Scorto colà nel gran palagio antico.
Miro il sepolcro, e riconosco i marmi
Che chiudon lui del roman fasto amico.
Tocca il Genio la tomba, e l’urna scossa,
Scorger puossi di Livio il teschio e l’ossa.
Ergi (disse il mio Nume) il capo altero,
O scrittor nato a immortalar gli eroi,
Ch’egual gloria del Tebro al vasto impero
Recar l’armi di Roma e i scritti tuoi:
Per l’aereo vien meco agil sentiero,
Né t’incresca lasciar gli Elisi tuoi.
Nell’adriaca del mar reggia beata
Vieni meco a veder Roma rinata.
Di quest’opra del Ciel dall’onde uscita
I’ son fra’ Lari il tutelar beato;
E quei che or vedi (e me co’ cenni addita)
Figlio non è di sì gran madre ingrato.
Vinegia nostra ad esaltare invita
Fra’ suoi gran Padri un cittadin bennato.
Vieni, o grand’Ombra, e i suoi trionfi ammira,
E all’umil vate il tuo talento inspira.
Un sottile vapor dal tetro fondo
Esce dell’urna, ed invisibil forma
Eterea prende, e per le vie del mondo
Scorrer s’appresta senza imprimer orma:
Con noi s’accoppia l’orator facondo,
Noi precede di cigni allegra torma;
E sull’ale de’ venti, in un baleno,
Della Donna del mar posammo in seno.
Mira (il Genio dicea) deh! mira, o Tito:
Quel dei veneti Padri è il Campidoglio.
Ivi regna a pietà valore unito,
Non crudel brama o illimitato orgoglio.
Là non giunge il poter del volgo ardito
A deturpar la maestà del soglio,
Ma comparte agli eroi lo scettro alterno
Dell’Aristocrazia l’util governo.
Consoli qui vedrai, pretori, edili,
Tratti dal fior dei cittadin gentili,
Scorti dal sangue a meritar gli onori.
Roma, che i Marii suoi dai bassi e vili
Ordini trasse a conquistar gli allori,
Cogli esempi funesti essere insegna
Del supremo poter la plebe indegna.
Sorto non è dei Veneti l’impero
Dalle rapine, dalle stragi e il sangue:
Amor di libertà gli aprì il sentiero,
Valor l’accrebbe che non scema o langue.
Lungi dal fasto de’ Romani altero,
Che alfin cedeo della discordia all’angue,
Provvidenza e saper dall’Adria ha esclusi
I Gracchi, i Scilla, i Coriolani, i Drusi.
Volta l’Ombra onorata all’ampia sede,
Tal scioglie il labbro, e l’umil fronte inchina:
Il Ciel ti salvi, o fortunata erede
Della già spenta libertà latina.
Altro nume altre leggi, ed altra fede
Più durevole impero a te destina.
Finché rieda la terra al caos profondo,
Vivrai temuta e rispettata al mondo.
Oh superbi Tarquini, oh rio talento,
Oh de’ Cesari e Crassi orgoglio insano,
Oh del Lazio diviso alto spavento,
Avidi spargitor di sangue umano!
Volgete il guardo a questi lidi intento,
Ove regna di pace amor sovrano,
E nel tartareo sempiterno orrore
Invidia scenda a lacerarvi il cuore.
Tacque lo Spirto, e il condottier riprese:
Felice te, se concedesse il fato
A chi fra l’ombre ad abitar discese
Tornar di vita allo cammin cessato.
Or che il tuo colto patavin paese
Gode gli auspici del Leone alato,
Alzeresti le mire oltre le sfere,
E le Decadi tue sarian sincere.
La Patria sol, ma il buon consiglio onora;
E se accorda il trionfo ai guerrier suoi,
Ai seguaci d’Astrea nol nega ancora:
Che se l’armi serbar lontan da noi
Pon l’ostile furor d’armata prora,
Chi le redini in mano ha del governo,
Mantien la pace al bel Paese interno.
Mira (a dir segue) di cortese e grata
Tenera patria l’odïerno esempio.
Mira d’archi e trofei Vinegia ornata,
La reggia in festa, e risplendente il tempio.
Chi esalta le virtù d’alma onorata,
Utili al giusto, e non clementi all’empio;
Chi con simboli spiega in varie guise
Le cagion del trionfo, e le divise.
Vedi colà da industre man dipinta
Donna, che regge al destro fianco il corno:
Verona bella, a regolare accinta
D’Adige il corso al terren colto intorno.
Fama non è nel di lei seno estinta
Del pio signor che governolla un giorno;
E tal fu giusto il suo governo, e grato,
Ch’alto seggio per premio ebbe in Senato.
E Brescia mira in maestosa gonna
De’ Cenomani Galli illustre erede,
Che d’ampie valli e d’alti monti è donna,
E de’ cigni canori eterna sede.
Lui, che fu suo rettore, or sua colonna
Chiamar si pregia, e venerar si vede:
Tanta impressa lasciò di lui memoria,
Tanta alla patria e al suo saper diè gloria.
Volgi (segue) lo sguardo ai pinti muri
Di cavi bronzi e di vessilli adorni,
E l’illustre pennel ti raffiguri
Gli ampi di Palma militar contorni.
Palma, che del Friul render sicuri
Puote a fronte di Marte i bei soggiorni,
Prestò giuliva ubbidïenza e onore
A lui qual padre e militar pretore.
E chi è colui che a trionfar si guida?
(Avido di saper Tito richiede).
Alza il popolo in questo al Ciel le grida,
E muover turba, e giubilar si vede.
Par che il mare risponda e il Cielo arrida
Al comun plauso che l’eroe precede;
E al nome di Quirin, ch’alto risuona,
La grand’Ombra si scuote, e tal ragiona:
O Sulpizia, del Tebro augusta pianta,
Cui Sulpizio Quirin diè fama e onore,
E d’alto ceppo consolar si vanta,
E d’un Caio tribuno e dittatore;
Indi a gloria salir la feo cotanta
Sergio Galba Sulpizio irnperadore:
I tralci suoi da regal tronco usciti
Veggio dell’Adria a germogliar sui liti.
E qual fu sempre di sua stirpe il grido
Grata memoria ai popoli latini,
Tal di Vinegia risuonar sul lido
Odesi il nome degli eroi Quirini.
Patria felice, che di pace il nido
Non temer, no, te li rapisca il Fato,
Ché veglia il Nume a tua difesa armato.
Giustamente (riprese il Genio augusto)
L’illustre ceppo ad esaltar sei spinto;
Ma non sai forse di qual gloria onusto
Sia quel cui miri al bel trionfo accinto.
Tommaso il saggio, il valoroso, il giusto,
D’ampia porpora eccelsa adorno e cinto,
L’alta mercé, che a’ merti suoi s’aspetta,
Umile in don dalla sua patria accetta.
Indi a me volto il tutelar felice,
Che l’alme desta a glorïose imprese:
Le sue gesta cantar provati (ei dice)
Tu che nato pur sei nel bel paese.
E se l’opra a te sol tentar non lice,
Volgiti a lui, che i Roman fasti estese;
Ei ti può far tra gli Orator preclari
Andar di Tullio e di Pison del pari.
Alzo timido il ciglio alla grand’Ombra,
Invisibile altrui, non al mio sguardo:
Padre (dicendo), dal mio sen disgombra
L’atro vapor che mi fa pigro e tardo;
Di fama al suon, che il mio Quirini adombra,
Accordar le mie voci anelo ed ardo;
Non mi manca il disio che m’ange e sprona:
Lo stil mi manca, e tu che il puoi, mel dona.
Udisti già, qual di Giustizia al trono
Librar seppe il rigor colla pietade.
I’ vorrei dir qual di saggezza il dono
Ebbe largo dai numi, e di bontade;
E dir vorrei qual liberale e prono
Fu all’altrui ben sin dalla prima etade,
E qual risponde al geniale aspetto
Della grand’alma il generoso affetto.
I ricchi doni che fortuna ha sparti
Fra le nobili sue pareti antiche,
Saggiamente divide in giuste parti,
Non ingrato al favor di stelle amiche;
Godono le scienze, e godon l’arti
L’onesto premio delle lor fatiche,
Né avvezzo è a risparmiar l’argento e l’oro
Per l’onor della patria e il suo decoro.
Per ciò dar lode, e per cent’altri pregi,
A lui disïo, degnissimo d’istoria;
E a’ vati illustri e ad oratori egregi
Forzato i’ sono a invidiar la gloria.
Chi esalta il suo bel cuor, chi esalta i fregi,
Chi suda ad eternar la sua memoria:
I’ sol mi rimarrò cheto, avvilito,
Se non m’aiti e non mi sproni, o Tito.
Lieto mi guarda, ed un sorriso aggiugne
Al dolce sguardo lo scrittor romano.
Figlio (dice) là dove aquila giugne,
Tenta palustre augel salire invano.
Dal lodevol disio che il cuor ti pugne,
Troppo è il tuo ’ngegno e lo tuo stil lontano;
Né bast’io sol, né può bastare uom nato
Ad impor leggi alla natura e al fato.
Lascia, deh lascia l’onorata impresa,
E tu lo soffri, amico Genio, in pace.
La brama in voi da giusto zelo accesa
Sembrar potria soverchiamente audace,
E allo stesso signor modestia offesa
Sentir, fors’anco, e tollerar dispiace,
Ch’è l’usata virtù d’uom saggio e prode
Meritar gloria, ed isdegnar la lode.
Se farti grato (a me soggiugne) aneli
Al di lui cuor, ch’è d’onestate il nido,
Di’ qual egli rispetti il Re de’ Cieli,
Qual sia divoto alla sua patria, e fido.
Di’ che, nemico d’animi crudeli,
Onora sol della clemenza il grido,
E specchio fa de’ suoi desir bennati
I Deci, i Fabi, i Scipioni, i Cati.
Così vi basti, e in brieve dir chiudete
Quanto di grande il di lui seno accoglie.
Qui restar più non lice a chi di Lete
L’onda varcò che uman poter ne toglie.
Vo degli Elisi all’eterna quïete
Delle grand’alme a riveder le soglie,
Ed a render vieppiù felice e gaio
Un Maurizio, ed un Giovan Galbajo310.
L’ombra disparve, e la fedel mia scorta
Esser mostrò del Patavin contenta;
Figlio (mi disse), il tuo desir conforta,
E l’aperto cammin di scorrer tenta;
Segui la turba che all’eroe ti porta,
E il colto stil del precettore ostenta.
Mi strinse al sen l’augusto Genio, e tacque,
L’ali raccolse, e si perdeo fra l’acque.
Solo restai fra’ miei pensier confuso,
Pieno di brame e di timori il petto,
Ché al sublime sentier non nato ed uso,
D’Icaro al pari il precipizio aspetto.
Di viltade, signor, me stesso accuso,
Non di debole stima, o scarso affetto.
Mostriti l’alta visïon ch’io svelo,
Che, se manca il poter, non manca il zelo.