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L’OMBRA DI TITO LIVIO
PER LE FELICISSLME NOZZE DELL’ECCELLENZE LORO IL NOBILUOMO AGOSTINO BARBARIGO, E LA NOBILDONNA CONTARINA LIPPOMANO CAPITOLO A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR NICOLÒ BARBARICO SAVIO DEL CONSIGLIO, FRATELLO DELL’ECC.mo SPOSO
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PER LE FELICISSLME NOZZE DELL’ECCELLENZE LORO
IL NOBILUOMO AGOSTINO BARBARIGO,
E LA NOBILDONNA CONTARINA LIPPOMANO
A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR NICOLÒ BARBARICO
SAVIO DEL CONSIGLIO, FRATELLO DELL’ECC.mo SPOSO
Possibile, signor, che in dì di nozze
Agio i’ non abbia di parlar con lei
Senza che sianmi le parole mozze,
E che venghino anch’oggi, a quattro, a sei,
A occupar la sua mente i memoriali,
Le suppliche, gli uffici, i piagnistei?
Tempo fu, ch’i potea fra’ commensali,
O a liete veglie, ragionar con seco,
E a parte farla de’ miei beni e mali;
E mi sovvien che generosa meco
Ella fu sempre di consigli e doni,
Quand’era il destin mio torbido e bieco.
Or l’antico desio par che mi sproni
Seco, Eccellenza, a ragionar per poco,
E a pregarla che soffra i miei sermoni.
Opportuno mi sembra il tempo e ’l loco,
E, se lascianla in pace i gravi affari,
Quella bontà, ch’è suo costume, invoco.
Pria di tutto, signore, ai sacri altari
Innalzo i voti, e all’imeneo festoso
Prego i numi non sian di grazie avari;
L’illustre Agostin, l’amabil sposo,
Doni all’eccelsa nobile famiglia
Degno degli avi successor famoso.
Bella del Lippomano inclita figlia,
Gloria dell’Adria, e del bel sesso onore,
Che in virtù somma ai genitor somiglia,
Fra i domestici lari e pace e amore
Rechi al dolce consorte ed ai germani,
Qual reca fregio il suo natio splendore.
E s’io non vaglio agl’imenei sovrani
L’umil cetra accordar, miei voti almeno
Non sian discari ai Barbarighi umani:
Che dal labbro non sol, ma più dal seno
M’escon sinceri, e di cent’altri e cento,
Spero che i voti miei non vaglian meno.
Dio volesse che lo mio talento
Fosse in sì chiaro dì pari al desio,
Che ’l mio dire ornerei d’alto concento.
Ma quanto vaglio, e come posso, anch’io,
Prima che lungi dalla Patria i’ vada,
Vengo a fare, Eccellenza, il dover mio.
Di Francia in breve ho da calcar la strada:
Lusinghiero destin m’invita e chiama,
E priego il Ciel che lo mio meglio accada.
Non mi sprona al partir volubil brama,
Non lo scarso favor del mio Paese,
’Ve la parte miglior mi soffre ed ama.
Quello dirò che ad incontrar m’accese
Lo straniero novel dubbioso impegno,
E ’l cor disvelo a un protettor cortese.
Tre lustri or son che dal mio scarso ingegno
Vo spremendo il midollo, e, quanto lice
A me sperar, giunsi dell’opra al segno.
Ma non dura Fortuna ognor felice,
E temer posso di colei gli oltraggi,
Ed all’imo cader dalla pendice.
Nuove terre calcando, e nuovi saggi
Di costumi prendendo, può la mente
Trar miglior frutti da novei vïaggi,
E un dì tornando alla diletta gente
D’Italia mia, che or di me forse è stanca,
Esser rancido meno e men spiacente.
Un altro sprone al desir mio non manca
Di correre la lancia in un cimento
Fra l’acclamata nazïone franca.
E non temo di dir che al cor mi sento
Quello stimol d’onor che degno fora
Del più felice italïan talento.
E ai lidi andrei della nascente aurora
Per ottener quell’onorato fregio,
Quella fronda immortal che i vati onora.
Deh mi donin gli dei tal forza e pregio
Che, s’io non giungo a meritar le lodi,
Scorno i’ non abbia sulla Senna e sfregio.
Altri i geni saranno, e gli usi, e i modi,
Ma natura per tutto è ognor la stessa:
V’han per tutto virtuti, e vizi, e frodi.
E se grazia dal Ciel mi fia concessa
D’onorata mercede, i cari amici
Ne saran lieti, e la mia patria anch’essa.
Non v’ha dubbio, signor, che i dì felici
Mi facciano scordar del mio dovere
Fra le vaste lusinghe adulatrici.
Alle venete scene, a mio potere,
Manterrò la mia fede, allor che piaccia
A chi puote volerlo, o non volere.
D’ingrato sempre e mancator la taccia
Calsemi d’isfuggir, né alcun contratto
(Sallo ciascun) la mia persona allaccia.
Adempier posso, e mantenere il patto
In Francia, in Spagna, e fin nell’Indie ancora,
Quand’io la spesa a sofferir m’adatto.
E da Vostra Eccellenza, che mi onora
Protettor, mecenate, in faccia al mondo
L’assalito onor mio difesa implora.
Posso, ovunque men vada, andar giocondo,
Se un tanto illustre cavalier si degna
Scioglier il labbro in mio favor secondo:
Un cavalier, che glorïosa insegna
Veste di padre della patria invitto,
Ed al pubblico ben veglia, e s’impegna.
Né pel timor d’ingiuste voci afflitto,
Trarrò, vostra mercé, d’Italia il piede,
Dell’Alpi Cozzie per l’aspro tragitto.
E, se grazia ai miei voti il Ciel concede,
Dopo un doppio del sol compiuto giro
Spero sull’Adria rinovar mia fede.
Questo è l’unico ben cui lieto aspiro:
Se la Parca non tronca i giorni miei,
Qui dove nacqui, di morir sospiro.
E me tre volte fortunato, e sei,
Se in soave riposo i dì felici
Posso sperar di rigoder con Lei!
E co’ que’ saggi suoi diletti amici,
Che per bontà de’ loro cuor divini
Me degno fan di generosi auspici,
O Valier, o Falier, Balbi, Quirini,
O Zorzi, o Barbarigo, o Beregani,
O talenti sublimi, e peregrini,
O miei cortesi protettori umani,
Cui rivedere mi lusingo un giorno,
Né cesserò di rispettar lontani!
Celere faran essi il mio ritorno,
E accelerare lo potrà quel dono
Di cui m’ha il Prence per clemenza adorno.
Vostra Eccellenza, che presiede al trono
Delle pubbliche grazie, intende appieno
Qual sia l’alto favor di cui ragiono.
Parlo dell’ampio privilegio, e pieno,
Che a me l’Opere mie stampar concede,
E alla licenza de’ librai pon freno.
Calmi forse di ciò più ch’altri crede;
Più in opra tal, che in altro ben confido,
E da ciò spero ai sudor miei mercede.
Né per esser lontan dal patrio lido
Trascurerò la mia diletta impresa,
Che può in vecchiezza assicurarmi il nido,
E dal pensier d’eternitate accesa,
La quiet’alma sottrar dai studi usati,
Al fin dei giorni a prepararsi intesa.
Tanti, per vero dir, nomi ho segnati
Sul mio libro finor, che tosto io spero
Compiere i mille ch’avea desïati.
E pel novel lunghissimo sentiero,
Per cui deggio passar, gettando gli ami,
Farò di pescator l’util mestiero.
Ora dica chi può, ch’io solo brami
Vagabondo girar per piani e monti,
E la mia patria e il mio miglior non ami.
Vedran forse le genti, al fin dei conti,
Che male il tempo non avrò impiegato,
L’acqua traendo da diverse fonti.
Ah, Signor, lo confesso, i m’ho abusato
Di sua dolce bontà. Perdon le chiedo
S’io in sì bel giorno l’importun son stato.
Gl’illustri sposi ritornar già vedo
Lieti dal tempio. O eccelsa coppia, e degna,
Che ha di mille virtù dote e corredo!
O vergin saggia, che alle spose insegna
Caute serbar fra il coniugale affetto
Bontà, rispetto e d’umiltà l’insegna.
Donne, del nostro cuor gioia e diletto,
Dio, che vi trasse dalla viril costa,
Per render l’uomo in suo poter perfetto,
Sdegna mirar che sovra l’uom sia posta
La femminile autorità usurpata,
Che dal voler del Creator si scosta.
Mirate lei dal nobil sangue nata,
Sangue famoso nell’etate antica,
Ch’ha di gloria la patria ognor fregiata;
Mirate lei d’ogni virtude amica,
Come il cuor dona, ed il voler soggetta
Al suo sposo e signor, saggia e pudica,
La fraterna armonia, l’union perfetta,
Fra l’esemplari Barbarighe mura
Da Provvidenza a mantenere eletta.
D’esta famiglia, che ognor ebbe in cura
L’antichissimo onor serbar degli avi,
E or piucché mai di meritar procura,
Niccolò siede fra le prime e gravi
Dignità della patria, assiso al trono
Fra grandi, eccelsi, venerabil savi.
All’illustre Agostin, costante e prono
Per la via della gloria, assai vicino
Veggio del grado senatorio il dono.
E seguendo lo stesso arduo cammino
I minori fratei, mancar non puote
A chi ha merito eguale, egual destino.
All’Adria eccelsa, ed all’Europa note
Le genti furo Barbarighe ognora,
Venerabili al mondo e al Ciel divote.
E si rammenta, e si rispetta ancora
Di Marco e d’Agostin, dogi preclari,
L’alta memoria, e il nome lor si onora
E le terre son piene, e pieni i mari
Di glorïose, memorande imprese
De’ Barbarighi valorosi e chiari.
Ah qual ardire, ah qual furor m’accese?
Parlai, signor, senza mirarla in faccia,
Ma veggio ahimè che ’l mio parlar s’intese
Quel silenzio modesto è una minaccia
Che m’impone tacer. Direi pur tanto!
Ma vuol ragione e il mio dover ch’io taccia.
La sua rara bontà fu il dolce incanto
Che mi feo trattener più che non lice;
Poiché da Lei di congedarmi ho il vanto,
Partirò più contento, e più felice.