Carlo Goldoni
Componimenti poetici

IL PELLEGRINO   POEMETTO PER LA VESTIZIONE DELLA NOBILDONNA CONTESSA VITTORIA VIDIMAN NEL MONASTERO DI SANTA CATERINA

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IL PELLEGRINO

 

POEMETTO PER LA VESTIZIONE DELLA NOBILDONNA CONTESSA

VITTORIA VIDIMAN NEL MONASTERO DI SANTA CATERINA

 

PARTE PRIMA

 

O voi, che brama di sapere avete

Quel che accade di nuovo alla giornata,

E di fiabe e romanzi avidi siete,

E d’ogni altra ridente pappolata;

Cosa vi narrerò se mi udirete,

Non iscritta finora, né stampata:

Idest vi canterò di un Pellegrino

Le avventure, i viaggi, ed il destino.

Dite quest’opra mia, qual più vi aggrada,

Storia, canto, poema, o stanze, o ottave;

Io non mi scosterò dalla mia strada,

Seguitando il mio stil, non vil, non grave;

E al solito, qualor sentir m’accada

Di critica toccar l’acuta chiave,

Seguirò non ostante, e m’apparecchio

Aprir le labbra e chiudere l’orecchio.

Odami chi udir vuole, e a chi non piace,

Tutto quel ch’io dirò, sia per non detto.

La mia sola ricchezza è la mia pace,

Né m’attrista d’invidia onta o dispetto.

Chi ne sa più di me, sel goda in pace.

Dono di provvidenza è l’intelletto.

Io compatisco chi non sa nïente;

Me compatisca ancor chi è più valente.

Non mi muove a dettar la storia in rima

Del mio tedesco Peregrin divoto

Brama di gire alla sacrata cima

Del Parnaso immortal, che a pochi è noto;

Ma offrir vo’ in segno di rispetto e stima

Ad un illustre cavaliere in voto

(Prima ch’i’ esca dall’Italia fuori)

Uno de’ miei fantastici lavori.

Se grati a lui non riusciran miei carmi,

Figli di un miserabile talento,

Posso almen con certezza assicurarmi

Che gratissimo a lui fia l’argomento.

Ché non d’amori, o cavalieri, o d’armi,

E di cosa vulgar cantar io tento,

Ma il Pellegrin, ch’è la fedel mia scorta,

Di vergin santa a ragionar mi porta.

Questa vergine eccelsa a Dio diletta,

O saggio, o illustre Vidiman cortese,

È figlia vostra, fra le donne eletta

A dar gloria dell’Adria al bel paese.

Udite come sua virtù perfetta

La mente e il cor di un Pellegrino accese;

E di Joan Lordgloc, Tedesco vero,

Io copio i detti, e non v’aggiungo un zero.

Mosso il pio cristian da divozione

Per visitar gl’italici santuari,

Preso il breve mantel, il bordone,

Addio disse agli amici, e ai patrii lari.

 Solo per lo cammino andar propone,

Ricco di fede e scarso di danari,

Cavalcando per via, da buon Tedesco,

Sul docile caval di san Francesco.

Venne, scorrendo il bavaro paese,

Di Salisburgo agli ultimi confini,

Passò la Drava, ed il cammino ei prese

Della Carintia per i giogi alpini.

Giunse a San Paternian, dove intese

Che non son malveduti i pellegrini,

E persuaso da sì dolce incanto,

Colà fermossi a riposare alquanto.

Vede un ricco palagio, e in cuor gli viene

Voglia di domandar chi n’è il signore,

Desïoso, se può, d’alloggiar bene,

Senza aver il danar da metter fuore.

Gli risponde in tedesco un uom da bene:

Di quell’ampia magione è possessore

Un cavalier patrizio veneziano

Saggio, prudente, generoso e umano.

Qui Sua Eccellenza Vidiiman padrone,

Conte del Sacro e del Romano Impero,

Di questo borgo è libero barone,

E comanda al fecondo ampio sentiero.

Soggiacciono alla sua giuridizione

Trentaquattro comuni; e solo, e vero

Dominator con magistrati e corte,

Assolver può, può condannare a morte.

Ei può donar l’eredità giacenti

Ad ognun de’ vassalli a suo talento,

E può legittimar quei che innocenti

Nacquero al mondo senza il Sacramento.

Regge, benché lontan, le nostre genti

Con un Vicario alla giustizia intento,

E siam, grazia del Ciel, lieti e felici

Di sì caro signor sotto gli auspici.

Benché lungi da noi lo tenga il fato

In augusta città di lui ben degna,

Egli è da noi teneramente amato,

E nel cuor nostro dolcemente ei regna:

Poiché sappiam che di virtuti è ornato,

Che ama giustizia e la clemenza insegna,

E quant’è nel punir pesante e lento,

Altrettanto è in graziar presto e contento.

Entraro uniti nel palagio antico.

E fu il divoto Pellegrin raccolto,

E all’indomani pel terreno aprico

Per la via di Villacco ha il piè rivolto :

Villacco, in cui dal Sassone nemico

Carlo Quinto, fuggendo, un fu accolto,

Ed ebbe il vanto di salvar l’onore,

E la vita, e gli stati al suo signore.

Alla breve città fermossi intorno,

I caldi bagni ad osservare attento,

Onde s’empie talora il bel soggiorno

Da infermo stuolo a risanarsi intento.

La Provvidenza ha quel paese adorno

Di facile e sicur medicamento,

E i medici colà coi loro arcani

Strage non fan dei miseri cristiani.

Per l’Italia seguendo il suo cammino,

Giunse della Pontieba, al passo angusto,

Per cui diviso è il veneto Domino

Dall’antico Germano Impero augusto.

E ammirò come il popolo vicino

Serba di sua nazion l’uso vetusto.

Di qua tutto è italian, lingua, e costume;

Ed è tutto german di dal fiume.

L’Alpi Giulie passate, arriva al fine

Alla bella città ch’Udine ha nome,

Che tra il furor di barbare ruine

Coronate d’allor serbò le chiome.

Scorrendo il delizioso ampio confine

L’accorto Pellegrino intese come

Quella patria reggeva un Mocenico,

Ch’era del Vidiman cortese amico.

E colà poscia a ragionare udio

Ch’ave una figlia il Vidiman signore

Che ha destinato di donarsi a Dio,

D’ogni umano desir spogliato il cuore.

Eravi chi lodava il bel desio

Di un’alma accesa di celeste ardore :

E chi dicea con un sospir profondo:

Oh quanto perde, se lei perde il mondo!

Ricca, nobile dama e di talento,

Vaga, gentil, di maestoso aspetto,

Chiuderassi per sempre in un convento,

Cambierà in umil cella un aureo tetto?

Nutre dell’Adria a conseguirla intento

Ogni illustre garzon la brama in petto,

Ed ella fugge in solitaria stanza?

Oh delusa del mondo egra speranza!

Fra quel che intese il Pellegrin da prima,

E quel che or sente di sì pia famiglia,

Desia, pien di rispetto e d’alta stima,

Il genitor conoscere, e la figlia.

S’alza di buon mattino, e verso il clima

Temperato dal mare il cammin piglia,

Ma per divozïon risolve intanto

Passar per Padua a visitare il Santo.

Trovasi alla Fossetta, e s’imbarca,

E in grazia del bordon risparmia il nolo,

E la Laguna sino a Mestre varca,

E passo passo si ritrova al Dolo.

Giunto a Padua alfin dinanzi all’arca

Bacia i candidi marmi, e bacia il suolo;

Indi a Santa Giustina ei va curioso

Il gran tempio a mirar maraviglioso.

Per il Prà della Valle indi s’avvia

Sotto il comodo ombroso porticato,

Ed osserva un signore a mezza via

Starsi sedendo al suo portone allato.

L’inchina il Pellegrin. Con cortesia

Lo risaluta il gentiluom garbato;

Indi amorevolmente lo trattiene,

Chiedendo dove va, da dove viene.

Svela il Tedesco la sua patria e il nome,

E la novella sua buona intenzione

Di passare a Venezia, e narra come

Acquistarsi colà brama un padrone.

Il nobil Padoan chiede il cognome

Di quel signor cui visitar propone,

E sentendosi a dir che è il Vidimano,

Alzasi in piedi, e batte mano a mano.

Bravo, dicendo, o Pellegrino, andate

A conoscere il fior de’ cavalieri,

Ricco di fregi e ricco di bontate,

Docile nei costumi e nei pensieri;

Ma se piacere al cavalier bramate,

Le lodi trattener fa di mestieri,

Ché nemico del fasto è per natura,

E la lode servil sprezza e non cura.

Ite, soggiunge, e al Cavalier gentile,

E alla nobile sposa, e alla famiglia

Rinnovellate il mio rispetto umile

Especialmente alla contessa figlia:

Figlia vaga, modesta e signorile

Che nel bel cuore al genitor somiglia,

D’occhio vivace, e maestoso aspetto,

Che risveglia in ciascun stima e rispetto

Ella nata di sangue illustre e degno

D’ogni nodo sublime, e pronipote

Del pio signor che ha della Chiesa il regno,

Ricca di beni e di cospicua dote,

Ella che al grado suo pari ha l’ingegno,

Le cui rare virtù son chiare e note,

Tutto pone in non cal, tutto in oblio,

Per viver casta e consacrarsi a Dio.

Scelta ha la cella sua nel monistero

Ch’è all’egiziana martire dicato,

Nobile antico santuario vero,

’Ve di Sant’Agostin l’Ordine è usato

Ivi l’alma nutrì, nutrì il pensiero

Di massime conformi ad umil stato,

Certa che l’umiltà, per virtù eletta,

Apre la via per divenir perfetta.

parte alcuna in così pio consiglio

Ebbe umano discorso o affetto umano.

Fissò, egli è vero, in due sorelle il ciglio

La divota nipote, e non in vano,

Di lor ch’han preso dalla terra esiglio,

Valse l’esempio angelico e sovrano;

Ma queste due Rezzoniche pietose

Alla grazia lasciar le strade ascose.

E la grazia di Dio soavemente

Penetrolle nel sen, le punse il core,

Onde giunta all’etade in cui si sente

La vergin pronta a concepire amore,

Disse fra sé: Se il genitor consente,

Esser sposa vogl’io del mio Signore;

So quanto è il genitor cortese, umano:

In lui confido, e non confido in vano.

Il saggio, il prode cavalier pietoso

Fa la figlia sortir da quelle mura,

E l’occulto pensier, per anche ascoso,

Di penetrar discretamente ha cura.

Nobile per costume e generoso,

Ogni onesto piacere a lei procura;

Ella per aggradir mostra diletto,

Ma il suo primo desio coltiva in petto.

Poi giunge il che ha di parlar fissato,

E al suo buon genitor scoprir l’arcano.

S’avvia modesta, gli si prostra allato,

E umilemente baciagli la mano.

Padre, dicendo, a sé Dio mi ha chiamato :

Altro sposo non vo’ che il mio Sovrano;

S’è in piacer vostro che felice io sia,

Piacciavi secondar la voglia mia.

L’abbraccia il padre e intenerir si sente,

Riman sospeso, indi favella e dice:

Figlia, se sua ti vuol Dio onnipotente,

Che l’uom si opponga al suo voler non lice.

Vanne, che il genitor te l’acconsente:

Fa che sappialo ancor la genitrice.

S’alza la figlia, e giubilante appieno

Corre alla madre, e le si getta in seno.

Volea parlar, ma la prudente dama

Prevenuta l’avea col suo pensiero:

Figlia, dicendo, dell’occulta brama

Fra i tuoi silenzi ho discoperto il vero;

Vattene al chiostro pur, se Dio ti chiama;

Io non mi oppongo al suo divino impero.

Pur che appaghi contenta il tuo desio,

Lo soffro in pace, e son contenta anch’io.

Finì dicendo il padovan signore

Al buon Tedesco: Mi ricordo ancora

Quando Maria Quintilia, la minore

Rezzonico sorella, si feo suora,

Un comico poeta, o sia dottore,

Con Esopo alla grata saltò fuora

Dicendo che inclinava, e disse il vero,

La contessa Vittoria al monistero.

Sempre più s’invogliava il Pellegrino

D’ire a Venezia ove spingealo il cuore,

Per vedere e ammirar più da vicino

L’ammirabile figlia e il genitore.

Ma poiché non sapea d’onde il cammino

Prender dovesse, chiese per favore

Gli additasse la via sicura e corta

Per gir della città fuor della porta.

Chiamando tosto il gentiluom Pasquale,

Va, gli dice, e accompagna il forastiere

Alla solita barca; e liberale

Mette mano al taschin, gli per bere.

Fra sé disse il Tedesco: Manco male.

Indi col Cavalier fa il suo dovere

E dal fido Pasquale accompagnato,

Giunse al solito imbarco, e s’è imbarcato.

Sperava il pover uom di riposarsi,

E dormire la notte agiatamente,

Ma non trova un canton da coricarsi

Fra cotanti imbarazzi e tanta gente.

Procura, come può, di addormentarsi,

E sotto il manto mordere si sente:

Onde perché il vegliar meno gl’incresca,

Si risolve di starsi all’aria fresca.

Splendea la luna, e a vagheggiar si diede

Della Brenta i palagi ed i giardini,

E a un galantuomo a lui vicino ei chiede,

Se ha stanza il Vidiman fra quei confini.

No, gli risponde, villeggiar si vede

Altrove il Vidiman fra’ suoi domini,

sembra che fra gli altri ei si consoli

Nel suo ricco, giocondo, ampio Bagnoli.

Due volte l’anno in compagnia giuliva

Di Dame e Cavalier, di buoni amici,

Nel fresco autunno e alla stagione estiva

Gode, e altrui fa goder giorni felici;

E talor rende l’allegria più viva

Colle comiche scene imitatrici,

E con giochi innocenti, e pranzi, e cene,

Cortese con chi va, grato a chi viene.

Seco condusse a villeggiar l’altr’anno

La sua figlia maggior, ma convien dire

Ch’altri pensieri nel suo cuor sen stanno,

Poiché non seppe in tanto ben gioire.

Sparsa è una voce che mi reca affanno,

Ch’abito monacal voglia vestire,

E la patria privar d’una speranza

Che in lei fondava, ed ogni speme avanza.

Con questi ed altri tai ragionamenti

Passan la notte, ed a spuntar si vede

La vaga Aurora a serenar le genti;

Indi all’alba novella il sol succede.

Tenendo gli occhi il Pellegrino intenti,

Discopre la regal veneta sede,

E tocco da stupor, da maraviglia,

Segue il Tedesco ad inarcar le ciglia.

Piucché s’avanza, piucchemai comprende

Esser opra de’ numi il gran lavoro.

Mira gli alti palagi, e non intende

Come scherzino l’onde intorno a loro.

Scende nella gran Piazza, e a dir s’intende:

O dell’arte, o del mondo ampio tesoro!

Va per la Merceria, s’incanta, e dice:

O abbondante città! Città felice!

Giunge verso Rialto, e il ponte ammira

Noto per fama ai popoli lontani.

Volea salir, ma di veder sospira

La diletta magion de’ Vidimani;

La via ne chiede, e ciascheduno aspira,

Giusta la cortesia de’ Veneziani,

D’insegnargli la strada, e un buon cristiano

Lo conduce con seco a San Canciano.

Giunti dove fa capo un fruttaiuolo,

Per qua, dice, s’andria, ma per sventura

Si è rotto il ponte, e per maggior mio duolo

Poner mano non veggio all’armatura.

Chi non vuole il canal passare a volo,

Un giro convien far per via sicura:

Deggio presto partir, ma spero un giorno

Che il ponte sarà fatto al mio ritorno.

Era un uomo costui che andar sovente

Soleva a desinar dal cavaliere,

E che talor per astrazion di mente

Verso il ponte sen gìa sopra pensiere.

Quando se n’accorgeva, impazïente

Maledire s’udiva a più potere,

Come se l’allungar la strada un poco

Fosse per esso un camminar sul foco.

Giunsero al fine a penetrar le porte

Del bel palagio Vidimani antico;

E le scale scendea, per buona sorte,

Un galantuom che degli amici è amico.

Chiedon del cavalier, della consorte;

Ei d’introdurli prendesi l’intrico,

E entrato il Pellegrin col camerata,

Trovano in essi la bontade usata.

Già il franco Venezian colà restava,

E rincresceva al Pellegrin partire,

Tanto più che vedere ei desïava

Quella la cui virtù fa altrui stupire.

Siccome un galantuom d’esser mostrava

Nel parlar, nell’aspetto, e nel vestire,

A pranzo il cavalier l’ebbe a invitare,

E il buon Tedesco non si feo pregare.

Poscia guidato il Pellegrino in sito

Separato in allor dall’altra gente,

Tenete, disse cavalier compito,

E una carta gli segretamente.

Grazie gli rende, e poi sotto al vestito

Discioglie il gruppo, e le monete sente;

Si rallegra iI meschin, ma arrivar sente

Dalla porta comun dell’altra gente.

Erano questi i due minor figliuoli,

Il contino francesco e il bel Tognino;

E l’ultimo di lor par si consoli

Nel veder col bordone il Pellegrino.

Chiede il Tedesco se due maschi soli

Concessi al cavalier abbia il destino;

Risponde il Venezian: Ve n’ha in Murano

Due maggiori di questi, a San Cipriano.

Giovine dama nell’età fiorita

Entrar poi vede in maestoso aspetto,

Colla faccia ridente e colorita,

Nere pupille, e labbro tumidetto,

Vezzosa agli atti, e in favellar compita,

Ma tal che impone al forestier rispetto.

Veggendo il Peliegrin l’aria modesta:

È questa? ei chiede, e dir si sente: È questa.

Siedon tutti alla mensa, e il buon straniero

Nel sentirla parlar gode e s’incanta,

Preso da maraviglia e stupor vero,

Come in donna si dia virtù cotanta.

Delle donne, dicea, non è il mestiere

Saper l’istorie, e la Scrittura Santa;

E delle matematiche il diletto

Sorpassa il femminil vago intelletto.

Tentò l’accorto provocar la dama,

Seco parlando di grandezze umane,

E scoprì in essa la celeste brama

Disprezzatrice delle pompe vane.

Vede che nel suo cuor coltiva ed ama,

Piucché l’argento e l’or, le sacre lane,

E che tanta virtù rara e perfetta

Pel mondo no, ma per il Ciel fu eletta.

Indi il discorso fe’ cadere a sorte

Sul suo viaggio il Pellegrin valente,

Pregando il cavaliere e la consorte

E la vergine saggia umilemente

Raccomandarlo a quella sagra Corte

Dove regna il santissimo Clemente,

Zio di donna Quintilia, e che per essa

Amor paterno e distinzion professa.

Volentieri la grazia a lui si accorda:

Parte contento, e ai protettor s’inchina.

Delle dame congiunte ei si ricorda,

E va di botto a Santa Caterina.

Del santo campanel tira la corda,

Deo gratias gli risponde una vicina;

L’abbadessa domanda, e la sorella,

E la minore Vidimana anch’ella.

Vengon le due Rezzoniche gentili

Piene di umanità, di cortesia,

Nell’eccelse virtudi ambe simili,

Arabe d’anima grande, e giusta, e pia.

Indi conosce ai tratti signorili,

Alla vaga gentil fisionomia,

La nipotina, la contessa Annetta,

Disinvolta, cortese e vezzosetta.

Dame, lor dice, i passi miei diretti

Son di Roma ai santuari. Avrò l’onore

D’esser anch’io fra i pellegrini eletti,

E i piè baciare del roman Pastore.

Conoscer bramo i nobili soggetti

Del sangue illustre di sì pio signore,

E prima di partir son qua venuto

Quel rispetto ad usar ch’è a voi dovuto.

Maria Luigia, nobile abbadessa,

Pria lo ringrazia, e poi gli il buon viaggio.

Maria Quintilia lo ringrazia anch’essa,

E gli augura felice un tal passaggio.

La giovinetta al finestrin s’appressa,

Dicendo con parlar modesto e saggio:

Andate in pace, Pellegrino mio:

Verrei a Roma volentieri anch’io.

Di partissi il galantuom gentile,

E una gondola prese e andò a Murano,

Desideroso d’inchinarsi umile

Ai due figli colà del Vidimano.

Giunto all’isola vasta e signorile,

Si conduce bel bello a San Cipriano,

Dove stansi in collegio i giovanetti

Sotto i Somaschi, in educar perfetti.

Il contino Giovanni, allegro in volto,

Lieto l’accoglie e pel collegio il mena,

E molte cose gli domanda, e molto

Era in quel di favellare in vena.

L’altro, meno verboso, e più raccolto.

L’accoglie anch’esso con fronte serena,

Dicendo: A Roma noi andremo ancora;

E soggiunge il maggior: Non vedo l’ora.

Terminati il Tedesco i complimenti,

Torna a Venezia, e d’inchinar bramoso

Del Santo Padre i nobili parenti,

Al palagio sen va ricco e pompososo

Dove sen sta di Giustiniane genti

Dama d’illustre sangue e cuor pietoso,

Del Romano Pastor degna cognata,

D’ogni bontà, d’ogni virtute ornata.

Accolto fu benignamente, ed ebbe

Prove del suo bel cor cortese, umano;

E all’informato Pellegrino increbbe

Che non vivesse quel signor sovrano

Che il latte sempre di pietà sol bebbe,

Cavalier generoso, e pio cristiano,

Morto Procurator, ma vivo ancora

Della Patria nel cuor, che il nome onora.

Da Venezia partir risolve al fine

E va tosto a imbarcarsi alla Piazzetta;

Giunge colla peota al bel confine

Dove di zucche si suol fare incetta:

E mentre avvien ch’ei per la via cammine,

Un’arme osserva sul palagio eretta,

Arme ch’anche in Germania avea veduta,

Arme del Vidiman riconosciuta.

S’invogliò di saper del pio signore

Come fosse lo stemma in Chiozza appeso,

E risposto gli fu: Saggio Rettore

Fu quivi un tempo alla giustizia inteso.

Il nome suo de’ cittadini in cuore

Vive, e regna tuttor dal tempo illeso,

E rammentasi ancor di Sua Eccellenza

Il saper, la dolcezza, e la clemenza.

Benedetto sia Dio, disse giocondo

Il Pellegrin: di quel signor sublime

Trovo marche d’onor per tutto il mondo,

Degno che ciaschedun l’onori e stime.

La sua pietade, il suo saper profondo

Lo trasporta di gloria all’alte cime...

Perdoni il Vidiman: lo so, gli spiace

Sentir le lodi; ed io fui troppo audace.

Parlo del Pellegrin, che s’incammina

Ver la prefissa religiosa meta,

E pria verso Loreto andar destina,

Ch’è di gente simil via consueta.

Or cavalca, or s’imbarca, ed or cammina,

Misurando il voler colla moneta:

Ché per tutto non trovansi Cristiani

Del bellissimo cuor dei Vidimani.

Tutto il viaggio narrar lungo sarebbe,

Seguendo il Pellegrin di loco in loco;

E annoiarsi potria chi finor ebbe

Gl’incolti versi a tollerar non poco.

Anche il mio canto divenir potrebbe,

Forse più che non è, spossato e roco;

Dunque restringerò la grave soma,

Di lui parlando allor che giunse in Roma.

O città fortunata, al Ciel diletta,

Sovrana un tempo del Romano Impero,

E or più felice poiché fosti eletta

In stabil sede al successor di Piero.

A te accordano i fati, e a te si aspetta

L’esser capo regal del mondo intero.

Se in te la Santa Religion risiede,

Tutto il mondo cristian ti bacia il piede.

Ma soffri che l’onor tuo si divida

Con l’augusta città che all’Adria impera,

Ché se il sagro Pastore in te si annida,

Ella è del tuo Pastor la madre vera.

Onorevol tra voi sia la disfida

Se sia vanto maggior, gloria primiera,

Possedere un eroe di virtù ornato.

O l’averlo prodotto e altrui donato.

Contento adunque il Pellegrino arriva

Nella vasta città dei sette colli,

E scorrendo le vie del Tebro in riva,

Ammira i tempi e le superbe molli.

Del supremo poter l’immagin viva

Nel Pontefice mira, e i tristi, e i folli

Error compiange di chi tenta in vano

Scemar la fede al regnator romano.

Adempier cale al buon Tedesco il voto

A di cui fin peregrinar si canta:

Le Sette Chiese visita divoto,

E sale in ginocchion la Scala Santa;

Di San Pietro e San Paolo al tempio noto

Piange compunto, e sacre laudi canta;

Sen van dei santi a visitar le tombe,

E dei martiri eroi le catacombe.

Indi la viva santitate aspira

Nell’almo venerar Sagro Pastore;

Sale a Monte Cavallo, e intorno gira

Fra la brama confuso e fra il timore.

Vede la Guardia, che dagli occhi spira

Il nazionale elvetico furore;

In Tedesco gli parla, e ciò non basta,

Ché lo discaccia, e gli presenta un’asta.

Allora il pover uom dal suo taschino

La lettera trae fuori, e il buon soldato,

Alla lettera fatto un bell’inchino,

Entrate, disse, e il Pellegrino è entrato.

Veggendo nel cortile un abbatino,

Del cardinal patron gli ha domandato;

Non rispondea, ma quando vide il foglio,

Venite, ei disse, accompagnarvi io voglio.

In fondo del cortil con lui guidollo

Dove sta Sua Eminenza, ed al decano

Il cortese abbatin raccomandollo,

Per la lettera sol che aveva in mano.

Gli levaro il bordone, ed ei lasciollo;

Le camere passò di mano in mano,

E finalmente all’ultima arrivato,

Fu dal mastro di camera incontrato.

Non aspettò che gli venisse chiesto

Cosa volea; la lettera ha mostrata,

E tosto il gentiluom cortese e presto

All’Eminenza Sua fe’ l’ambasciata.

Subito ritornò, subito e lesto

Aprì ridente al Pellegrin l’entrata;

Ed ei baciando e ribaciando il foglio,

Entra senza timore, e senza orgoglio.

Lieto l’accoglie il porporato umile:

Legge la carta, e il Pellegrin consola,

Di sì eccelso signor solito stile,

Che dolcemente ogni timore invola;

Rispetta il grande e non disprezza il vile.

Pietoso a tutti, e niuno mai sconsola;

Onde per le virtudi al mondo note

È di Sua Santità degno nipote.

Che vorreste, figliuolo? a prender dice;

A lui risponde il Peregrin festante:

Eminenza, vorrei, se ciò pur lice,

Solo, al Papa baciar le sacre piante;

I pellegrin, per quel che mi si dice,

Sen vanno in truppa al santo Padre innante:

Solo andare io vorrei; per grazia il chieggio,

Per boria no, ma favellargli io deggio.

Ho veduta, signor, la cara figlia

Del conte Vidiman, vostro cognato,

Vaga così che a un angelo somiglia,

E pare proprio un angelo incarnato.

Alla vergine pia, che ora s’appiglia

A viver castamente in umil stato,

Del zio vorrei portar con divozione

L’apostolica sua benedizione.

Ben volentieri, il cardinal risponde;

E stabilisce la giornata e l’ora.

Contento il Pellegrin va, e si confonde,

E non vede la via per uscir fuora.

Trova la porta che al cortil risponde,

E riprende il cammin calcato ancora.

All’ospizio giulivo ei fa ritorno,

E aspetta poi di tanta grazia il giorno.

Sen va scortato a visitare intanto

Dal porporato i tre minor germani,

E giubila in vedersi ad essi accanto,

E grazie ottien dai cavalieri umani;

Specialmente da lui che il nobil vanto

Ha dei veneti fregi, e dei romani,

Prence, procuratore e cavaliere,

Pieno di cortesia, pien di sapere.

Dalla Cancelleria, dov’essi stanno,

A ritirarsi il buon Tedesco andava,

E per la via, ’ve i pellegrin sen vanno,

Trova un palafrenier che lo cercava.

Domandògli s’er’ ei quell’Alemanno

Che i santi piedi di baciar bramava.

Rispose: Io sono. E quel: Doman mattina

L’udienza il Santo Padre a voi destina.

Restan gli astanti colla bocca aperta,

E gli fan di berretta e di cappello,

Ché non avean la lettera scoperta,

Che degli altri lo fa parer più bello.

Lo staffiere papal l’ora concerta,

E gli addita per segno un campanello.

Ma la notte non dorme, e la mattina

S’alza per tempo, e al Quirinal cammina.

Giunta l’ora prefissa, ei vien chiamato;

Entra, in terra si prostra, e bacia il piede;

E il discorso che avea già preparato

Scorda del tutto, e in confusion si vede.

Ma il Pontefice pio, ch’era avvisato,

Sa quel ch’ei brama e per timor non chiede,

E rivolto col cuore a Dio sovrano,

Alza per benedir la sacra mano.

Benedica, dicendo, il pio Signore

La saggia nostra pronipote eletta,

Benedica di lei la mente e il cuore,

La bell’anima sua sia benedetta.

Sia benedetto il verginal candore,

Le sacre spoglie e l’umile celletta;

Con quella autorità che Dio ci diede,

Noi la benediciam da questa Sede.

Sorgi, poi dice al Pellegrin piangente,

E questa mia benedizion papale

Reca alla santa vergine prudente,

Che sa quanto si apprezzi e quanto vale.

Benedico te pur teneramente

Con plenaria indulgenza universale;

Vattene, o Pellegrin, vattene in pace.

Ei s’alza, e piange, e si consola, e tace.

Ebrio di gioia sul momento ei parte

E alla Porta del Popolo s’avvia,

E risolve tornar per l’altra parte

Della Toscana, ed abbreviar la via.

Vede Firenze, di natura ed arte

Maraviglia, e a Bologna indi s’invia:

Colà provista la sua mensa parca,

Col corrier che non corre indi s’imbarca.

Torna in Venezia, e vi perviene il giorno

In cui la santa vergine si veste,

E vede il tempio riccamente adorno,

E andar le genti curïose e preste.

Lei vede pur con ricche gioie intorno

Splender pomposamente in aurea veste,

E fra sé dice: Mi farò palese

Allur quando vedrolla in altro arnese.

Sembrando a lui che l’abito pomposo

Della benedizion non fosse degno,

Fermossi in chiesa, fra la turba ascoso,

Fino che la funzion giungesse al segno.

Poi dal manto coperta religioso,

Troncato il crin, d’obbedïenza in segno,

Accostossi alla grata il Pellegrino,

A lei facendo un rispettoso inchino.

Brevemente narrò per qual ragione

Era tornato, e del sovran Pastore

Le recò la papal benedizione,

Ricevuta da lei con umil core.

Poi ringraziolla di sua protezione

E della lettra che recogli onore;

E de’ parenti suoi nuova le diede,

Gloria e splendor della romana sede.

Indi chiede in qual nome ha il suo cambiato.

Ella dice: In Maria Luigia Eletta.

Esclama il Pellegrino: Ha profetato

Del pio Pastor la santità perfetta.

Allor che la Nipote ha nominato,

Vi aggiunse questo termine di Eletta;

Eletta dal Signore, oh quanto, oh come

A voi convienprezïoso nome!

Vi benedica e vi consoli il Cielo,

E a me dia grazia di vedervi un giorno

Sposa del buon Gesù col santo velo,

Il che spero veder nel mio ritorno.

Or animato da divoto zelo

Ai luoghi pii peregrinando io torno,

E se la sorte è al desir mio propizia,

A San Giacomo andar vuò di Gallizia.

Passerò dell’Europa in più paesi

Per mari, e monti, e per torrenti, e fiumi,

E al mio ritorno farò a voi palesi

D’ogni popolo gli usi ed i costumi.

Vi dirò quel ch’io vidi e quel che intesi,

Né a voi discari riusciran tai lumi,

Poiché a vergine chiusa in umil tetto

Pascolo non si nega all’intelletto.

E dovunque mi guidi il mio destino,

Porterò in segno la memoria impressa

Della vostra virtù, di quel divino

Lume che v’arde e agli angeli v’appressa.

Ricordatevi voi del Pellegrino,

Ch’essere un vostro servitor professa.

Siatemi protettrice. Addio, signora:

Se Dio vorrà, ci rivedremo ancora.

Torna poscia veloce a San Canciano,

E si consola colla genitrice,

Ed al pio genitor bacia la mano,

E si licenza rispettoso, e dice:

Giuro da buon Tedesco e da cristiano

(Ché altrimente giurare a noi non lice),

Parto con allegria, parto contento,

Or che vidi la figlia in quel convento.

Io studiato non ho poco né molto,

Ma pur m’intendo di fisionomia;

E rimirando la damina in volto,

L’alma conobbi in lei candida e pia.

Per essa ogni piacer del mondo stolto

Stata sarebbe una malinconia.

Ora non cambierebbe il monistero

Con una reggia o con un vasto impero.

Novamente s’inchina, e si congeda;

L’invita il cavalier seco a pranzare;

Ei lo ringrazia, che non vuol si creda

Che tornato sia sol per mangiare.

Ordina il pio Signor che si proveda

Di quanto al pellegrin può abbisognare;

Lo ringrazia, si parte, e va pian piano

Benedicendo il nome Vidimano.

Pria d’uscir di Venezia in cuor gli viene

Brama di registrar quant’è seguito,

Fra sé dicendo: Ritrovar conviene

Un che lo sappia far presto e polito.

Veduto a caso il Venezian dabbene

Ch’aveaio un di compagnia servito,

Di scrivere pregollo in italiano

Quel ch’ei dettar volea di mano in mano.

Il galantuom, che in vita sua non disse

Di no a nessuno, lo guidò al suo tetto;

Prese in mano la penna, e tutto scrisse

Ciò che dal Pellegrin gli venne detto.

Tante le cose fur che a lui descrisse,

Tanti fogli vergò, che fe’ un libretto;

Ed io l’ebbi alle mani, ed io conversi

La sua pessima prosa in peggior versi.

Ecco, signor, da qual ragion fui mosso

Con diletto a vergarlunghe carte,

Bench’io sapessi che far ben non posso

Poiché mi manca la poeticarte.

Avrei giusta ragion di farmi rosso,

Miei difetti scorgendo a parte a parte,

Ma finalmente non ebb’io in pensiero

Che un’istoria narrar che dice il vero.

So che voi siete un cavalier cortese

Che gradisce e perdona, e cento volte

Furo da voi benignamente intese

Le scarse di pensier mie rime incolte

Il povero mio stil, noto al Paese,

Compatito sarà da genti molte;

Altri lo taccieran, ma non pavento,

Ché se voi l’aggradite, io son contento.

Contento i’ son se in questo felice,

In cui la figlia si consacra a Dio,

Al padre illustre e all’alma genitrice

Posso un pegno offerir del dover mio:

Se al mio talento immaginar non lice

Cosa corrispondente al buon desio,

In tributo, signore, a voi destino

L’opera ed il pensier del Pellegrino.

Se andrà in Gallizia, e tornerà st’altr’anno

La vergin santa a riveder professa,

E se, dove sarò, mi manderanno

Del Pellegrin la relazion promessa,

Continuare i miei carmi allor potranno

Un’altra parte della storia stessa;

Dio ci doni salute, e lunga vita:

La centesima ottava ecco è finita.

 

 


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