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IL PELLEGRINO POEMETTO PER LA VESTIZIONE DELLA NOBILDONNA CONTESSA VITTORIA VIDIMAN NEL MONASTERO DI SANTA CATERINA
DEL PELLEGRINO
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DEL PELLEGRINO
Sono quattr’anni ornai che il Pellegrino
Al santuario di Gallizia è andato.
Ritornare promise, e il poverino
La parola mantenne, ed è tornato.
Di Francia con piacer prese il cammino;
Qui mi venne a veder, qui mi ha parlato;
E nutriva il desio, di lui ben degno,
D’ire a Venezia a mantener l’impegno.
Quando (oh colpo fatal!) lettera giunse,
Lettera apportatrice di cordoglio,
Che con aspra ferita il cor mi punse,
E il Pellegrin d’ogni speranza ha spoglio.
Il suo dolore al mio dolore aggiunse,
Di lagrime bagnando ambi quel foglio :
Foglio crudel che involaci il conforto!
Il Vidiman, il signor nostro, è morto.
Mutoli lunga pezza, e senza moto,
Ci guardiamo l’un l’altro, e coi sospiri
A vicenda spieghiam nel cuor divoto
Qual tenerezza il duro caso inspiri.
Dal dolente letargo alfin mi scuoto,
Sfogo la pena mia co’ miei deliri:
Santi deliri, cui mi desta in petto
Gratitudine, amor, stima e rispetto.
Oh Patria (esclamo), o cittadin, dal cuore
Sciogliete, per dolor, sciogliete il pianto,
Ché lo merita ben quel pio signore
Che fu vostra delizia e vostro vanto:
Tenero sposo, amante genitore,
Buon padron, buon amico, in cui cotanto
La pietade prevalse e il zel cristiano,
Che pover mai non l’ha pregato in vano.
Mente aveva sublime e peregrina,
Talento, erudizion, genio e coltura,
E pompa non facea di sua dottrina,
Umile e circospetto per natura.
Pieno di santa religion divina,
Divoto zelator senza impostura,
Che dolcemente ad un girar di ciglia
Regolava gli affari e la famiglia.
Nato d’illustre sangue, e pieno il petto
Di sentimenti nobili e sublimi,
Senza orgoglio imponea stima e rispetto,
E solea rispettar gli ultimi e i primi.
Ricca mensa offeriva in ricco tetto,
Splendidi arredi, di ricchezza opimi:
Non pel vano piacer d’inutil some,
Ma per render giustizia al grado e al nome.
Rendere ai figli quell’onor dovea
Che dagli avi in custodia a lui fu dato,
E all’illustre consorte ei non potea
Rifiutar ricca sede e ricco stato:
Ma la man liberal ch’oro spargea
Per il decoro nella Patria usato,
Parte, segretamente, e con giustezza,
Ai poveri facea di sua ricchezza.
Nella splendida sua villeggiatura,
Di cui più volte celebrati ho i vanti,
Divoto cavalier prendeasi cura
Che la pietà gisse al piacere innanti.
Quello che al suo piacer porgea pastura,
Eran le scene comiche festanti,
Giovando al serio suo temperamento
L’innocente giovial divertimento.
Oh con qual zelo e qual bontà infinita
Furon l’opere mie da lui protette!
Finché la sorte mia mel tenne in vita,
Le ha mai sempre vedute e sempre lette.
L’orgoglio mio questo mio vanto addita
Contro critiche acerbe e mal concette,
E il Caffè, dedicato al mio signore,
Reca agli scritti miei gloria ed onore.
Oh quali grazie, oh quai dover rammento!
Oh qual fu meco il cavalier cortese!
Questo ad usi diversi util strumento562,
Sforzo dell’arte e dell’ingegno inglese,
Quest’orivol, questa catena, e cento
Doni, con cui rimunerarmi intese,
Furo del suo bel cor pretesti usati,
Mai pretesi da me, mai meritati.
Ma il profitto maggior, ma il ben maggiore
Fu per me la sua voce, e i suoi consigli:
Candidamente io gli svelava il cuore,
Certo ch’ei riparava i miei perigli.
Poco parlar solea, ma uscivan fuore
Da quel labbro divin le perle e i gigli;
E partiva il suo dir, chiaro e robusto,
Da una vera amicizia e da un cuor giusto.
Oh s’io tutto svelar potessi al mondo
Quel ch’io seppi di lui, che a pochi è noto...
Ma lo spirto, che in Ciel regna giocondo,
M’impon ch’io taccia, e va il desire a vuoto.
O genti afflitte da dolor profondo,
Quando vi tolse inesorabil Cloto!
Quanto perdeste, o miseri innocenti,
Vergini esposte, vedove dolenti!
Nel bel fior dell’età non lo rispetti,
Morte, ed abbrevi al cavalier lo stame?
Mancan del tuo furor più degni oggetti,
Se avida sei di sazïar tue brame?
Barbara, il so, tu ciecamente affretti
Del viver tuo le insidïose trame,
Perché le sue virtù numeri, e vedi
Ch’egli ha spirto senile, e vecchio il credi.
Abbia pace e riposo in fra i beati
L’anima giusta sull’eterea sede,
Vivano i figli suoi, figli onorati,
E sia ciascun di sue virtuti erede.
Quella che al chiostro i giorni ha consacrati,
Quella che al suo Signor giurò la fede...
Quivi interrompe il Pellegrino il canto,
E piange, e mesce alle parole il pianto.
Ohimè (dicendo), i’ mi facea una festa
D’ire a Vinegia a riveder la santa,
La diletta a Gesù vergin modesta
Che ripiena vid’io di gioia tanta.
Alla nuova fatal della funesta
Morte, da tanto e più da lei compianta,
Qual sarà il suo dolore? Ah posso anch’io
Il suo cordoglio misurar dal mio.
Può la virtù di un’anima innocente
Consolarsi con Dio, ma la natura,
Senza offender la grazia, si risente
Del proprio peso e della sua sciagura.
Dio medesmo lo soffre e lo consente,
Acciò veggiam quanto la vità è dura,
E con più forza, e con più ardente zelo,
Si sprezzi il mondo e si desiri il Cielo.
Quanto (soggiunse) sospirato ho il giorno
Di riveder la vergine festante
Col santo velo monacale intorno,
Vittima volontaria all’ara innante!
Sollecito intrapresi il mio ritorno
A Vinegia volgendo il cor, le piante;
E qui passai, perché di vostra mano
Scriver vi piaccia il mio vïaggio ispano.
Nel staccarmi da loro, un tal diletto
Alla figlia promisi e al genitore.
L’uno, ahimè! non è più; l’altra a dispetto
Prenderà, che si turbi il suo dolore.
Che far dunque degg’io? Partir m’affretto,
Se fia d’uopo partir: son uom d’onore.
Se aspettare degg’io, restar non sdegno;
Dite, e al vostro consiglio io mi rassegno.
Oh! me stesso (rispondo) io non comprendo,
Né in caso tale a consigliar mi appiglio.
Penso brievi minuti, e poi riprendo:
Ecco, per evitare ogni periglio;
Scrivo a Venezia; la risposta attendo,
E la risposta ci darà il consiglio.
Formo il foglio dolente, e il foglio mio
A un cavalier, a un protettore invio.
Priegol le parti mie far colla dama,
Vedova afflitta, e coll’eroica figlia,
E coll’illustre, desolata e grama
Per estremo dolor nobil famiglia.
Narro del Pellegrin l’ardente brama,
Che lo sprona al viaggio e lo consiglia;
E dirmi il prego se nel dì fissato
Si farà la funzione, o sia cangiato.
Si sommette il Tedesco all’ardua legge,
La risposta aspettando egro e scontento,
Ed a Parigi trattenersi elegge,
Il diario informe a regolare intento.
Visita i fogli suoi, cambia e corregge
Quanto comporta il suo discernimento;
Poscia a me li consegna, e: Voi potrete
(Dicemi) principiar quando il volete.
Veggo, spoglio le carte, e in ordin metto
Quel che vi ha di più scelto e interessante.
Ché le inutili cose il poveretto
Meschiate avea colle più serie e sante:
De’ viaggiatori solito difetto,
Ch’empiono i fogli lor d’inezie tante.
Difetto ch’io conosco, e non lo schivo,
E fo peggio degli altri allor ch’io scrivo.
Per esempio: che importa alla lettura
Del viaggio di Gallizia il saper quanto
Il Pellegrino per l’estiva arsura
Nell’ispano terren sudore ha spanto?
E sapere che, ingrata alla natura,
L’ispana gente d’ozïosa ha il vanto,
E come il contadino e il carrettiere
Colà il titol si dan di cavaliere?
Inutile è il saper che una giornata
Viaggiasi, e non si vede un sol ostello;
E alfin la sera l’osteria trovata,
Avvi in terra disteso un letticello,
Senza pan, senza vin, senza derrata
Per la fame saziar d’un poverello,
E vi vuol, per unir piccola mensa,
Tempo, danaro e una fatica immensa.
E portar seco per il giorno appresso
Il bisogno convien per reficiarsi,
E far legna nel bosco, e da se stesso
Far bollire la pentola, ed aitarsi.
E se tu cadi, e il tuo cavallo anch’esso,
Non trovi un can che voglia incomodarsi,
E puoi gridare: Cavaliere, aiuto,
Che il cavaliere se ne sta seduto.
Fra le povere inezie, e senza sale,
Descrive il Pellegrin degli Spagnuoli
L’Oglia putrida, polta universale
Che de’ piccioli e grandi empie gli orciuoli.
Bue, montone, vitel, pollo, maiale,
Rape, cavoli, ceci, erbe, e fagiuoli
Serve in un piatto sol, tutto meschiato
Di minestra, d’alesso e di stuffato.
Cento cose cassai di tal natura,
Degne di un più ridicolo argomento,
Poiché per nostra, e per comun sventura,
Di ridere non è questo il momento.
Giunto il Tedesco alle divote mura
Di Compostella, a scior il voto intento,
Di san Jacopo giunto al sacro altare,
Quello è il momento che si dee cantare.
E là mi estesi ad ispogliar gli scritti,
E formar di notizie un zibaldone.
Que’ santi luoghi ritrovai descritti
Con qualche studio e qualche erudizione.
E lessi come i peregrin contritti
Han di colpa e di pena assoluzione,
E colà le indulgenze vaglion tanto,
Quanto quelle di Roma L’Anno Santo.
Giunti all’alma città di Compostella,
Ch’ora della Gallizia è capitale,
Mostrano i pellegrin la lor cartella,
Fede o sia passaporto episcopale.
Poi offerta lor vien povera cella
Per alloggiar nel pubblico spedale,
Dove (per digressione) i poveretti
Trovano scarso cibo e tristi letti.
Ma notato trovai che un gran convento
Nella stessa città, dove alimento
Trovan migliore e una miglior cantina.
Dopo lunga fatica e lungo stento,
Il buon vino di Spagna è medicina,
E alla lor divozion non isconviene
Viver di carità, ma viver bene.
Tutto ciò, a dir il ver, potea cassarsi
Come inutile e basso, e l’ho lasciato
Perché l’autor non abbia a lamentarsi
Ch’abbia troppo il suo diario mutilato.
Quel che dai pellegrin colà dee farsi
Per la santa funzione ho registrato,
Cioè la Confession, la Comunione,
La visita, l’offerta e l’orazione.
E cercando nell’ampio scartafaccio
Cose degne di canto e di memoria,
Di san Jacopo trarre io mi compiaccio
Quel che trovo marcato a di lui gloria;
Sufficiente materia io mi procaccio
Per impinguar la meditata istoria;
D’Asia l’apostolato, e quai sudori
In Ispagna versò scacciando i Mori.
E come, in Asia vincitor tornando,
Seguì con zelo a predicar la fede,
E qual del santo corpo venerando
Fu Compostella fortunata erede,
Sotto l’altar maggior colà serbando
Questo dono del Ciel ch’occhio non vede:
Narra la tradizion che un uom ardito
Gli occhi, entrando, perdé, da Dio punito.
Seguitando lo spoglio, e in ordin posto
Quel ch’io scriver doveva, il Pellegrino
Viene a veder se ha il cavalier risposto,
Per saper una volta il suo destino.
Guardo il lunario alla muraglia accosto,
Vedo che è giovedì, chiamo Cecchino,
E dicogli: Alla posta ite, e vedete
Se lettere vi son. Presto, correte.
Vola il mio servitore, a cui natura
Diè pesante cervello e gamba lesta.
E intanto il Pellegrin veder procura
S’io avea la cosa in ordine contesta;
Ma veggendo più d’una cassatura,
Mirol sott’occhio torcere la testa,
Morder le labbra ed increspare il naso,
Degli scrupoli miei mal persuaso.
Perché (mesto mi dice e a mezzo fiato,
Ché lagnarsi volea, non disgustarmi),
Perché levar la serva del curato
Che ad onta del padron venne a scacciarmi?
Il buon servo di Dio mi aveva dato
Pane, vino e quartier per reficiarmi,
E la serva mel toglie, e non poss’io
Dir, per modo d’esempio, il caso mio?
Caro amico, rispondo, ogni argomento
Suscettibil non è di tai novelle;
E mentre parlo, il Pellegrino attento
Scorre coll’occhio in queste carte, e in quelle.
Indi esclama: Mio Dio, morir mi sento,
Mi sento proprio intirizzir la pelle:
Perché il gallo cassare e la gallina?
Il mio povero diario ito è in rovina.
Infatti ritrovai questi animali
Registrati nei fogli, ma non vi era
Buona ragion perché di cose tali
Ornar dovessi la mia cantafera.
Io la credei di quelle madornali
Fiabe della befana e la versiera.
L’interrogai che mi dicesse il vero;
Ecco come a svelar prese il mistero.
Di Castiglia la vecchia in un’altura
Evvi una chiesa, detta San Domingo
De la Calzada, dove su le mura
Del sagro tempio (non invento o fingo)
Un gallo e una gallina avvi in natura
Bianchi come nel diario io li dipingo,
Chiusi in gabbia e nutriti, e morti quelli,
Ne rimettono due freschi e novelli.
E i pellegrini allungano il bordone
E lor danno a mangiar, sia per diletto,
Sia per curiositade o divozione,
E portan tutti agli animai rispetto;
Poiché per un’antica tradizione
Un miracolo diede a ciò il soggetto.
E volgendosi a me: Del vostro ingegno
(Disse) un prodigio tal non parmi indegno.
Sì, un prodigio sì bel narrar conviene
(Dicogli), ed ei principia gravemente:
Era una volta... (Cominciamo bene.
Quell’uom che in piazza il popolo trattiene,
E di piacer fa strabiliar la gente:
Quell’uom grasso, vecchietto, gran ciarliero,
Vestito male e per lo più di nero).
Era una volta un buono Pellegrino
Con buona moglie, e con un buon figliuolo.
Portavano il bordone nel cammino,
E di tela incerata il ferraiuolo.
A San Domingo arrivano un mattino
E alloggiano da un oste marïuolo;
E la sua serva, ch’era una sfacciata,
Del giovinetto si era innamorata.
Come che questo non vuol aderire,
Passa tutta la notte in orazione,
E la serva si sente inviperire,
E il Demonio le fa la tentazione.
Vien la mattina, tempo é di partire:
Si licenziano queste tre persone,
E la serva, per far le sue vendette,
Una posata in saccoccia gli mette.
L’oste fa la rivista, e mancar vede
E la brutta servaccia, per mercede,
Dice che i pellegrin le avran rubate.
L’oste, senza dimora, se lo crede,
E le persone tosto son pigliate.
Presto presto, il processo fu spicciato,
E il povero figliuolo fu impiccato.
Padre e madre piangevan per dolore:
Povero figlio, non ti vedrò più.
Povero figlio mio, mi crepa il cuore,
Morir con innocenza e gioventù,
E di più ancora perduto l’onore:
Cagion del mio rossore sarai tu.
Destinano d’accordo d’andar via,
Dov’era il figlio prendono la via.
Eran tre giorni che fu al laccio appeso,
E nel vederlo si rattristan molto.
Un pianto in quella via la moglie ha inteso;
Dice al marito: Ohimè, che cosa ascolto?
Il padre si avvicina, ed è sorpreso
Vedendo vivo del figliuolo il volto.
Dal laccio lo voleano distaccare,
Ma non l’han fatto (e lo potevan fare).
Con che sono tornati alla città,
E al giudice la cosa han raccontata.
E il giudice che avea gran quantità
Di gente ad un banchetto convitata,
Dicendo che la favola è inventata..
E i pellegrini di concordamento
Lo voglion confermar col giuramento.
Il giudice ridendo, e tutti quanti,
Un gallo e una gallina aveva in piatto;
E dice ai pellegrini là tremanti:
Tanto possibil è lo vostro fatto,
Quanto che questi polli qui davanti
Tornino crudi, e volino ad un tratto.
Ecco in quel punto, Vergine Maria!
Il gallo e la gallina volan via.
E il giovine ancor vivo fu trovato.
Con suoni e canti a casa lo mandaro,
E fu con gran larghezza regalato.
E la serva fu presa, ed ebbe al paro
Egual sentenza, come ha meritato.
E per memoria in chiesa si destina
Un gallo mantenere, e una gallina.
Così l’istoria ha il Pellegrin finita.
Non è di fé, ma è tradizione antica;
E vuol di Dio la potestà infinita
Che in più modi si esalti, e benedica.
Consolo il Pellegrin, lo torno in vita,
Caso facendo della sua fatica,
Dicendo: Io stenderolla in altro stile;
Ma il mio stile del suo quasi è simile.
In questo mentre il servitor ritorna;
Mi dà la lettra ch’ei trovò alla posta.
L’arme conosco che il sigillo adorna.
Questa, dico al Tedesco, è la risposta.
Aprola, e leggo, ed il cuor mio si torna
A conturbar, veggendola composta
Che ha il cuor dettate e che la mano espose.
Né mai mi scorderò del dolce stile
Onde dal cavalier vergato è il foglio.
Sempre uguale con me, sempre gentile,
Diede merito e lode al mio cordoglio.
Dissemi poi, che pel vicino aprile
Era tal morte alla funzion lo scoglio,
E che i voti comuni avean fissato
Lasciar l’anno passar del lutto usato.
E soggiunse cortese: Il Pellegrino
Sarà, quando qui giunga, il benvenuto,
E avrà tempo per trar dal taccuino,
E in ordine dispor quel che ha veduto:
Sperando che il secondo libriccino,
Come fu del primier, sia anch’ei goduto;
E la lettera chiude il pio signore
Con chiari segni di verace amore.
Contento il Pellegrin dice: Aspettiamo;
Verrà il giorno per noi più fortunato.
L’opera intanto terminar possiamo:
Eccovi il diario; ma... signor garbato,
(Seguita a dirmi) non lo sfiguriamo;
E poi mel lascia, e prendesi commiato.
Torna dopo sei mesi, e non mi trova,
E cosa intende inaspettata e nuova.
A Versailles (gli dicono) è passato;
Ma si aspetta domani. Ei pontualmente
L’indomani mattina è ritornato,
Di sentir, di saper, curioso, ardente.
Con sincera amicizia io l’ho informato
Di un felice per me nuovo accidente,
Che mi obbligava di lasciar le porte
Del bel Parigi, ed abitare in Corte.
Più volte in confidenza aveagli detto
Ch’era annoiato di comporre in Franza
Commedie mozze, commedie a soggetto,
Io che in Italia ne abolii l’usanza;
E veder non poteva a mio dispetto
I diavoli volare e far la danza.
E qui, dove teatro è d’onor degno,
Essere l’Italian de’ scherni il segno.
Domandato (soggiunsi) ho il mio congedo;
Spero d’averlo, ma non l’ebbi ancora...
M’interrompe il Tedesco, e dice: Il vedo,
Voi tornate in Venezia a far dimora.
Non lo so, gli rispondo, anzi nol credo.
Ella è mia Patria, ed il mio cor l’adora.
Ma se l’adoro e la sospiro invano,
Viverò, morirò da lei lontano.
Seguitiam dunque. La real Delfina
Di sua clemente protezion mi onora,
E fissare il mio stato ora destina
Ed in Corte fissar la mia dimora.
Ella che ai studi e alle bell’arti inclina,
E le lingue possede ed assapora,
Destò in due principesse il buon desio
D’un maestro italiano, e quel son io.
Me ne consolo, dice il Pellegrino
A mezza bocca fra contento e afflitto,
Ch’egli mi volea ben, ma il taccuino
Gli stava in core e nel cervel confitto.
Guardami, e dir si prova il poverino:
Avete almeno qualche cosa scritto?
Quel parlar, quel dolersi, e quelle occhiate
Furo al cuor mio fierissime stoccate.
Ahimè, risposi, ahimè, nulla ho ancor fatto,
E la pena mi cruccia e mi divora.
Sciolto non sono da Parigi affatto,
A Versailles non ho l’albergo ancora.
Vado e ritorno qui di tratto in tratto,
Non ho di pace e di quïete un’ora:
Ma vi è tempo, vi è tempo. Ite, e vedrete
Che scontento di me voi non sarete.
Guardami, mentr’io parlo, e colla mano
Vede che gli occhi ritoccar non cesso,
Ed in tuon lamentevole ed umano
Chiede s’io son da qualche male oppresso.
Ah, pur troppo (rispondo), un caso strano
Nell’andare a Versailles mi è successo.
Correa la posta, e il leggere correndo
Cagionommi alla vista un mal tremendo.
Non vedea sul cavallo il postiglione,
Né gli alberi d’intorno, né la via;
Cieco già mi credeva, e l’orazione
Dissi alla santa martire Lucia;
Alla più salutar rassegnazione
E (per tutto narrar candidamente)
Il Cieco d’Adria mi è venuto in mente.
Giunto al Palazzo, il postiglion s’arresta,
Porgemi il braccio, e scendere mi provo.
Qualche raggio di vista ancor mi resta,
E la scala segreta al fin ritrovo.
Voglio entrare nel quarto, e do la testa
Nella porta socchiusa, e poiché nuovo
Il cammino non m’era, andar mi metto
Dell’augusta scolara al gabinetto.
Sentomi salutar da più persone:
Non le distinguo ben, ma francamente
Le risaluto, come un mio padrone
A Venezia suol far continuamente.
Trovo le damigelle e le matrone,
Le conosco alla voce esattamente;
Pregole d’annunziarmi: detto fatto,
La padrona vi aspetta, entro ad un tratto.
Come dal sole era difeso il loco,
Né aria entrar si sentia da verun lato,
L’occhio fortificossi a poco a poco,
Cosicché al mio dover non ho mancato.
Se n’accorse però madama un poco;
Le ho la mia colpa ed il mio mal svelato.
Ella un’acqua mi diè si salutare,
Che già sono guarito, o almen mi pare.
Ringraziato il Signore, il Pellegrino
Dice: Scrivete, poiché il tempo vola.
Scriverò, scriverò. Di buon mattino
Domani incominciar vi do parola.
Rilegge quel di che parlar destino,
Si contenta, mi abbraccia, e si consola;
Poi si licenzia, e dicemi: Fra poco
Ci rivedrem; datemi il tempo e il loco.
Deggio (rispondo) al fin di questo mese
Trasportar a Versailles la famiglia.
Là potete venir, ché il bel paese
Non è lungi di qui che dieci miglia.
Allor dolente il Pellegrin riprese:
Questa cosa m’affanna e mi scompiglia.
La vista, gl’imbarazzi, il nuovo impegno...
Non giungerete di quest’opra al segno.
Profetizzava il galantuom da bene,
Ma l’ardente desio ch’i’ aveva in petto
M’empie di bell’ardir, di bella spene,
E mari e monti al Pellegrin prometto.
Parte; mi lascia; il nuovo dì sen viene;
M’alzo per tempo, e a lavorar mi metto.
L’estro e la man scorrea come un ruscello,
Ma la vista mi manca in sul più bello.
Prendo breve riposo, e poi ritorno
All’amico lavoro; ahimè, la vista
Inferma è sì, che quel ch’io veggio intorno
Per metà il veggio, e nuove forme acquista.
Uso l’utile occhial, sino a quel giorno
Sconosciuto da me; l’occhial mi attrista;
E affaticato dal novello impaccio,
Mancami l’estro, e in van faccio e rifaccio.
Provomi il giorno dopo, e son lo stesso.
Al terzo, al quarto, non mi cambio ancora.
Misero me! Son dal dolore oppresso,
M’ange disperazione, e mi divora.
Coi cavalli del re giunge il calesso,
Di andar a Corte si avvicina l’ora;
Vado a adempire il mio dover con stento,
E assegnato mi vien l’appartamento.
L’alloggio in Corte mi consola alquanto,
Ché il comodo e l’onor givano insieme;
Con più ragion, con più calor pertanto
La vista mia ricuperar mi preme.
I medici consulto, e faccio tanto,
Che risponde al desio più certa speme;
E ricupero alfin l’occhio diritto,
Ma il sinistro non già, che ancora è afflitto.
Ma il tempo passa, e va la cura in lungo,
E il Pellegrin viene a trovarmi in Corte,
E d’un dardo fatale il cuor gli pungo,
Lui dipingendo la mia triste sorte.
— Ahi che a tempo, mi dice, io più non giungo
Al sagrifizio della vergin forte.
Manco all’oggetto mio, manco all’impegno. —
Ei piange, io piango, e il dolor passa il segno.
Io scusarmi volea, ma tondo e schietto
Dissemi in faccia il buon Tedesco allora:
— Voi avete, lo so, questo difetto
Di ridurvi mai sempre all’ultim’ora. —
— E ver, risposi, è ver, tale è il concetto;
Ma in casi tai non ho mancato ancora.
Serviva il tempo, e avrei il dover compito,
Ma l’occhio è infermo, e mi ha il destin tradito. —
Povero Pellegrin! mesto e dolente
Scusa mi chiede se mi avesse offeso.
Io l’abbraccio di cuor teneramente,
Ché onesto criticar non mi ha mai leso;
E avezzo sono a satira pungente,
E più di un labbro mal onesto ho inteso
Contro dell’onor mio scagliarsi irato,
E ho compianto il costume, e ho perdonato.
Certo son io che all’occasion presente
Noi otterrem dai Vidiman perdono,
Ma vi sarà dell’indiscreta gente,
Che di titoli rei ci farà dono.
Dirà taluno che il poeta mente,
Che un infingardo e mancatore io sono,
E che la cecità, che indarno affetto,
Non è degli occhi, ma dell’intelletto.
Siami Dio testimonio... — Ah no, cessate,
(Ripiglia il Pellegrin) di rattristarvi;
I cuor sinceri, le anime onorate
Fede, se han fede in cor, non pon negarvi.
Piuttosto a quel Signor ch’ora invocate,
Che può salute e pazïenza darvi,
Porgiam d’accordo supplici e devoti
Per la donzella Vidimana i voti. —
Ed alza gli occhi ad una immagin pia
Del Salvator dei miseri mortali,
Fra certi arazzi della stanza mia,
Inginocchiasi a terra; in compagnia
Seco m’invita, e parla in sensi tali:
— Se al dover nostro in questi dì manchiamo,
Per la vergine santa almen preghiamo. —
Mettomi a lui dappresso in ginocchioni,
Ogni umano pensier dal cuor disvelto;
E fra le varie proposte orazioni,
Dei tre fanciulli il cantico fu scelto;
Mandando al pio Signor benedizioni,
Che sì bel fior da questo mondo ha svelto
Per piantarlo lassù nel suo divino,
Sempiterno, soavissimo giardino,
Opere del Signor, lodate Iddio;
Angeli e Cieli, il nome suo esaltate.
Acque in mar chiuse, in lago, in fonte, in rio,
E voi, sante Virtuti, Iddio lodate.
Sol, luna, e stelle, e quanto in Ciel s’unio,
Benedizioni al Creator mandate.
E voi pioggie, e rugiade, ai venti unite,
Il Signore esaltate, e benedite.
Fuochi cocenti di stagione estiva,
Benedite la man di Dio superno.
Benedite il poter che vi ravviva,
Crudi rigori del gelato inverno.
Nebbie, pioggie, pruine, onde deriva
L’util dell’aria movimento alterno,
Condensati vapor, brine gelate,
Il Signor benedite, ed esaltate.
Benedicanlo sempre e ghiacci, e nevi,
Le notti, i dì, le tenebre e la luce.
Terra feconda, benedir tu devi
Eternamente il tuo Sovrano e duce.
E voi colline, e voi montagne grevi,
E voi erbe, e voi piante, in cui traluce
L’alto saper del Creator possente,
Benedite il Signor perpetuamente.
Benedite, fontane, il sommo bene;
Benedicanlo i fumi, e il vasto mare.
Beneditelo voi, mostri e balene,
E voi pesci dell’acque o dolci o amare.
Benedirlo e lodarlo a voi conviene,
Pennuti augelli; benedir, laudare
Voi lo dovete, numerosi armenti,
Bestie feroci, pecore innocenti.
Voi, figliuoli dell’uom, Dio benedite.
Benedica Israelle il suo Sovrano.
Voi, sacerdoti, e voi, che a Dio servite,
Di benedirlo non cessate in vano.
Benedite il Signore, alme contrite,
E voi spiriti giusti in corpo umano.
Misael lo benedica, ed Azaria.
Il Padre ed il Figliuol benediciamo,
E lo Spirito Santo; e laude eterna
Solo Dio che ci regge e ci governa.
Benedetto il Signore in ciel sappiamo,
Tal si senta da noi con voce alterna:
Benedetto mai sempre e in ogni lato
Nei secoli dei secoli esaltato.
Il cantico finito, ambi di cuore
L’offriamo a Dio per quella vergin pura
Che, penetrata dal divino amore,
Vuol finir i suoi dì fra sacre mura.
Vidimana delle donne il fiore,
Di tua felicità lieta e sicura,
Vattene al sacro altar, pura angioletta,
A Dio ti dona, il nostro zelo accetta.
Priegami il Pellegrin che voglia almeno
Far le scuse comuni a chi s’aspetta.
Rispondo: Lo farò. Mi stringe al seno
Dicendo: Addio, la mia famiglia aspetta.
Non dell’Italia, ma la via del Reno
Prender destina, e di partir s’affretta.
Trattengo i fogli suoi per farne altr’uso:
Scrivo intanto a Venezia, e il fallo io scuso.
Ed allo stesso cavaliere io scrivo,
E il doloroso mio malor gli espongo.
Ma di grata risposta io resto privo,
Segno ch’ei non mi crede, e al ver m’appongo.
Pazienza, dico. Ma chi sa? Se vivo,
Qualche cosa di fare un dì propongo
Che vagliami a provar che, se ho mancato,
Fu mia sventura, e ch’io non sono ingrato.
Un anno dopo (oh mio contento estremo!)
Giungemi da Venezia la novella
Che nozze in Casa Vidimana avremo,
Che si marita la minor sorella.
Giubilo, e fra me dico: Ora vedremo
Se son quel desso che talun mi appella:
Ecco l’occasion pronta e felice
Per far quello ch’io devo, e quel che lice.
E un pensiero mi prende, e mi diletta:
Il mio Esopo alla grata ha detto il vero,
Quando cantò che la contessa Annetta
Destinata non era al monistero.
Colma è ancor essa di virtù perfetta,
D’animo religioso e cor sincero.
Ma per rendere altrui lieto e giocondo
La Provvidenza la destina al mondo.
O felice Michele, o degno erede
E imitator dei Mauroceni eroi,
A cui tanta fortuna il Ciel concede,
Sì gran sposa accordando ai voti tuoi:
Cotanto in merto l’altre donne eccede
Questa cui trasse Amor fra’ lacci suoi,
Quanto l’altra germana in sagro chiostro
Esempio di pietade è al secol nostro.
Ecco (fra me diceva) il campo aperto
Alla Musa divota, ecco il momento
Di far altrui del zelo mio più certo
E di chiuder la bocca a cento e cento.
Scrivo a Venezia per saper di certo
Il tempo delle nozze; l’argomento
Termino intanto, ed opportuna all’uopo
Viemmi l’idea: La profezia d’Esopo.
Scrivere non ardisco al cavaliere,
Per un consiglio rispettoso e sano.
Scrivo a persona che doveal sapere
(Non dico a chi, per un rispetto umano).
Tarda d’Italia il solito corriere,
E giunge alfine, e non aspetto invano.
Ho la risposta, e leggo in chiaro stile:
Si fan le nozze nel venturo aprile.
Sopra notizia tal riposo in pace,
E medito, e dispongo il mio disegno.
Qui dico, pingerò d’Amor la face,
Qui d’Imeneo fecondator l’impegno.
A questo passo la mia Musa audace
Tutta l’arte userà, tutto l’ingegno,
Della sposa a formar l’almo ritratto,
Beltà, grazia e virtude unendo a un tratto.
M’aprirò il campo per cantar di nuovo
Della famiglia Vidiman le glorie,
Ché, per quanto ne dica, ognor ritrovo
Nuovi argomenti di novelle istorie.
Dell’estinto signore (ah il duol rinnovo!)
Canterò le sublimi alte memorie;
Canterò le virtudi il cuor, la mente:
Donna Quintilia, del Pastor regnante
Degna nipote, provvida tutrice
Dell’illustre famiglia, e madre amante,
Che l’eccelsa magion può far felice:
Quella che mi colmò di grazie tante,
Generosa padrona e protettrice,
Quella che di lontan venero e inchino,
Quella nei versi miei cantar destino.
Reso il disegno, qual potei, migliore,
Vado un giorno a Parigi, ed alloggiato
Da Sua Eccellenza, nostro ambasciatore,
Il dispaccio in quel punto era arrivato.
Chiedo le novità: mi fa l’onore
Di darmi il foglio di notizie usato.
E leggo (ohimè!): Si son nei dì passati
La Vidimana e il Morosin sposati.
Balzo in piedi furente, e cambio loco.
Domanda il cavalier: Che vi è arrivato?
Nulla, nulla, Eccellenza, e getto al foco
Le carte che con meco avea portato.
Poscia, come potei, dolente e fioco
La mia sventura ho al cavalier narrato.
Ah, se quel che mi ha scritto i’ avea alle mani,
Foss’anche un mio fratel, facealo in brani.
Eccomi un’altra volta al caso istesso;
Cerco il rimedio, ed il mio mal peggiora.
Son da fortuna svergognato, oppresso,
E la rabbia mi cruccia e mi divora.
Giovani, vecchi, genti d’ogni sesso,
Che sparlate di me, fatelo ancora.
Son, lo giuro al Signor, sono innocente,
Ma il pretesto ai maligni è sufficiente.
Che farò, dissi fra di me, meschino?
La Profezia d’Esopo è incenerita.
Per i fogli produr del Pellegrino
La seconda occasione andò fallita.
Ma se non svelo il mio crudel destino,
Non avrò pace finché duro in vita.
Si scateni, m’insulti il mondo intero,
I’ vuò sfogarmi, e far palese il vero.
Coll’occasion che le mie fanfaluche
Deonsi stampare, e pubblicar fra poco
(Per far cartacce, involgere le acciuche).
Scelto ho di farlo l’occasione e il loco.
Quei che cercan nel grano le festuche,
A spese mie divertiransi un poco.
Il resto affin del Pellegrino ho inviato.
Il soccorso di Pisa ecco arrivato.