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IL PELLEGRINO POEMETTO PER LA VESTIZIONE DELLA NOBILDONNA CONTESSA VITTORIA VIDIMAN NEL MONASTERO DI SANTA CATERINA
PER LA PROFESSIONE DELL’ILLUSTRISSIMA N. GAUDIO AL SIGNOR MARCO ASTORI CAPITOLO
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
PER LA PROFESSIONE DELL’ILLUSTRISSIMA N. GAUDIO
Astori, io sono ognor mortificato,
Quando in mente mi vien che l’anno scorso
Vi ho promesso de’ versi, e vi ho mancato.
Senz’altre scuse, senz’altro discorso,
So che ho fallito, e in simile difetto
So che parecchie volte sono incorso.
Facile a dir di sì (sia per rispetto,
O sia per amicizia, o per natura),
Di buona voglia e di buon cor prometto;
E questo buon voler persiste e dura
Costantemente, finché dell’impegno
E del bisogno il termine matura.
Allor contro di me m’accendo e sdegno,
Allor m’accorgo che pesi m’addosso,
Molto più che non ho tempo ed ingegno.
I dover primi trascurar non posso,
Quelli cioè dell’odierno incarco,
Che non è lieve pel mio debol dosso.
E quando teso lungamente è l’arco,
Scoppia la corda, se non si rallenta,
E facilmente non ritorna carco.
Poi si parla, si strilla, e si argomenta
Ch’io manco di dovere e di rispetto,
E la mia Patria è di me malcontenta.
Per correggere adunque il mio difetto,
Per non promettere, e mancar di nuovo,
Nulla per l’avvenir, nulla prometto.
E se disposto a lavorar mi trovo
Per qualche impegno, o per compiacimento.
Verran le cose mie dal Mondo Nuovo.
Ma che serve cotal cicalamento?
Ecco l’altro difetto mio ordinario:
Dir cento cose fuor dell’argomento.
Or celebrar degg’io l’anniversario,
Cioè la Profession d’una donzella
Ch’è fatta gemma del divino erario.
Di casa Gaudio, mi ricordo, è quella
Per cui l’onore mi faceste un giorno
Di domandarmi qualche coserella.
Perdono, amico, a domandarvi io torno
Se non l’ho fatto per la vestizione,
Ma questo peso or mi vuò trar d’intorno.
E parmi or d’aver maggior ragione
Di lodar la fanciulla, or che ha formati
Gli eterni voti della Professione.
Potea coi versi miei, ne’ dì passati,
Confortarla a durar nel buon volere,
E i tre nemici non temer sdegnati.
Poteva argomentar, farle vedere
Che la pace è il maggior d’ogni altro bene
Che si possa da noi quaggiù godere.
Disvelarle potea con quai catene
Allaccia il mando, e qual difficil cosa
Sia lo sottrarsi da chi il piè vi tiene.
Ma alla donzella, che nel sen riposa
Della virtude e del divin consiglio,
Non era alcuna veritade ascosa.
Meglio ora posso con allegro ciglio
Consolarmi con lei, che ha superato
Ogni scoglio, ogni brama, ogni periglio.
Rallegrarmi poss’io che a quello stato
L’ha condotta l’Amor sacro e divino,
Che in Cielo e in terra all’alme pure è dato.
Quindi aprirmi potrei l’ampio cammino
A tesser inni a sua virtù sublime,
Al suo merito sommo e peregrino.
Potrei cantar quanto di lei si stime
L’innocenza assai più della bellezza,
Onde il mondo l’esalta in fra le prime;
E come ella pospone ogni ricchezza
Alla felice povertà del chiostro,
Trovando fra gli stenti ogni dolcezza.
Donna la potrei dir del secol nostro
Ornamento, modello e maraviglia,
Scorno del vizio e dell’infernal mostro.
All’ingegno disciolta avrei la briglia
In altri tempi, e con sì nobil sprone
Avrei corso cantando mille miglia.
Ma questa, in cui vivo, ampia nazione,
Perder l’uso mi ha fatto d’ogni lode
E d’ogni metro, in simile occasione.
Qui dai poeti accompagnar non s’ode
La verginella che si dona al chiostro
Colla canzona, col sonetto o l’ode,
Anzi si beffan del costume nostro;
Inutilmente spargesi l’inchiostro;
Che s’ella è mossa dai celesti auspizi,
D’uopo non ha di suoni né di canti,
Ma d’orazioni e di divini uffizi.
Detestano, condannano quei pianti
Che fingono i poeti delle madri,
Dei padri, dei parenti e degli amanti;
Condannano, detestano quei quadri
Che si fanno del mondo all’innocente
Con colori sì vivi e sì leggiadri;
Onde la vergin che non sa niente,
Sente quel che ha perduto e che ha lasciato,
E qualche volta di lasciar si pente.
Io non mi sento ancor determinato
A dar torto o ragione a questi o a quelli,
E lascio il mondo come l’ho trovato.
Il capitolo ho letto ai miei fratelli;
L’hanno ascoltato digrignando i denti,
Li ho tormentati a colpi di martelli.
Non parver dei miei versi malcontenti,
Ma tutti mormorar contro l’abuso
Ch’Italia fa di simili argomenti.
E detto m’han che dal consorzio escluso
Stato sarei, se avessi mai pensato
D’introdurre a Parigi un simil uso.
E parmi già di vedervi invogliato
Di saper quai fratelli in Francia io vanto,
Dove il mio genitor non è mai stato.
Ma voi sapete che amicizia tanto
Puote, quanto natura, e ch’è più forte
Della vera amicizia il nodo santo.
Noi siamo nove; a ognun di noi le porte
Sono schiuse dell’altro, e i beni e i mali
Facciam comuni della nostra sorte.
Di radunarci i giorni principali
Le domeniche sono, e abbiam per questo
Il nome assunto di Domenicali.
Ciascun dona ai fratelli un pranzo onesto
Nella sua casa, il giorno che gli tocca,
Escluso ogni altro per comune arresto.
Brilla ne’ pranzi l’allegria non sciocca,
La critica discreta e salutare,
Schiettezza in core, e veritade in bocca.
Io che sapea con chi avea che fare,
Quando lor lessi il mio componimento,
Cercai l’animo lor di guadagnare.
Dissi: Amici e fratelli, anch’io consento
Ch’è stucchevole cosa e tristo impegno
Formar poemi su tale argomento,
Ma talor deesi assoggettir l’ingegno
E sforzar la natura e l’intelletto,
Quando il soggetto di tal cura è degno.
Se conosceste il peregrino oggetto
Dei carmi miei, la vergine sublime,
Idea miglior vi desterebbe in petto.
E certo son che colle vostre rime
Eco fareste alla mia Musa umile
Per esaltarla sulle aonie cime.
Giovine vaga, amabile, gentile,
Ricca di beni e ricca di talento,
Nata per aver stato signorile:
Mossa sol da virtù, da sentimento
D’umiltà, d’onestà, di penitenza,
A passar i suoi giorni in un convento,
Merita aver da voi la preferenza,
Merta che una nazion così cortese
Prendasi, in grazia sua, simil licenza.
Risvegliandosi allora il brio francese,
Viva, dice ciascun, viva il suo zelo;
Viva l’amor che la donzella accese.
Ma compor versi? Ci difenda il Cielo.