Carlo Goldoni
Il raggiratore

ATTO PRIMO

SCENA TERZA

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SCENA TERZA

 

Il conte e Arlecchino

 

CON. Questo è il codice dei villani. Le donne vanno trattate con gentilezza. Quello che non si ottiene colla buona grazia, difficilmente si può sperar col rigore; che dici tu, Arlecchino adorabile?

ARL. Mi digo cussì, che per vencer l’ostinazion de Giacomina, ghe vorave el verbera verbera de sior Dottor.

CON. Jacopina non ti vuol bene dunque?

ARL No digo per lodarme, ma credo che no la me possa veder.

CON. Questo è poco male. Che ti ha detto di me donna Claudia?

ARL. Donna Claudia m’ha dito... Ma no vorave fallar el nome. Donna Claudia xela la mugier o la fiola de sior don Eraclito?

CON. Non lo sai ancora? Ma sei bene sciocco! Donna Claudia è la moglie. La figliuola è donna Metilde.

ARL. M’ha dito donca donna Metilde...

CON. Io non ti domando di lei, ma di donna Claudia.

ARL. No di lei, ma di lei. Se poderave recever una grazia da vussustrissima?

CON. Che cosa vuoi?

ARL. Che almanco per una volta sola, dopo tre mesi che ho l’onor de conoscerla, la me fasse la grazia de dirme la verità.

CON. La verità non la dico sempre?

ARL. Sior sì, el dise sempre la verità come un lunario.

CON. (È un gran briccone costui; mi conosce più di quello ch’io mi credeva). Bene, qual verità vorresti tu sa pere da me?

ARL. Vorave saver, se in casa de don Eretico ve preme più la fiola, o la madre.

CON. Questa non è cosa che a te debba premere.

ARL. Ma la xe una cossa che la me confonde. Ora me mandè a parlar alla mader, ora me mandè a parlar alla fiola. Ora quella me dis: dirai al Conte, che si scordi di me. Ora me dis quell’altra: ricorda al Conte, che non mi privi della grazia sua. Stamattina, tra de ele do, ho credesto che le se volesse cavar i occhi. Tutte do in t’una volta le me voleva dir, che mi ve disesse; e le m’ha tanto dito, che no me recordo più gnente affatto quel che le m’abbia dito.

CON. Sei sempre stato un balordo, e lo sarai finché vivi.

. Aspettè che ghe pensa un poco meio, che pol esser che me recorda qualcossa.

CON. Converrà che io mi serva di qualcun altro.

ARL. Zitto, zitto...

CON. Ti ricordi di qualche cosa?

ARL. Sior sì, m’arecordo che Giacomina m’ha dito che son un aseno.

CON. Ha detto bene, che non poteva dir meglio.

ARL. Obbligatissimo alle so grazie.

CON. E donna Claudia?

ARL. L’ha dito cussì de vussioria...

CON. Come! ha sparlato di me?

ARL. Ma lassème fenir de dir. Ha dito cussì donna Claudia... Ma in te l’istesso tempo xe saltada suso donna Metilde.

CON. E che ti ha detto donna Metilde?

ARL. Adesso me vien in mente. La m’ha dito, che a vussioria disesse da parte soa...

CON. Che cosa?

ARL. La madre la gh’ha rotto el filo, e no l’ha podesto fenir.

CON. Che cosa ha detto la madre?

ARL. La dise: quando viene da noi il signore... Ma in quel punto xe arrivà quella diavola de Giacomina, e mi, confesso la verità, me son voltà da quella banda e delle do patrone no me son recordà più gnente affatto.

CON. Bella premura che hai di me, che ti mantengo, si può dire, di tutto il tuo bisognevole!

ARL. Ma vu no me podè far quel ben che me pol far Giacomina.

CON. Va dunque, e più non mi venire d’intorno.

ARL. Ma la Giacomina la pol far del ben anca a vussioria.

CON. Come?

ARL. Oh bella! parlando alle so patrone per vu.

CON. Non dici male. Conviene coltivarla la cameriera. Procura ch’ella parli per me.

ARL. Ma la verità vorave saver. Alla madre, o alla fiola?

CON. A tutte due, per ora.

ARL. Dise el proverbio: chi vol ben alla fiola, fa carezze alla mamma. No la xe miga boccon cattivo donna Metilde.

CON. Sì, è una ragazza di garbo.

ARL. Ho inteso, sior Conte el vorave matrimoniar.

CON. Prendi quest’astuccio. Portalo in nome mio...

ARL. A donna Metilde?

CON. No, a donna Claudia.

ARL. No capisso gnente.

CON. Non è necessario che tu capisca.

ARL. Ma mi bisognerave che savesse tutto, per no fallar.

CON. Fa quel che ti dico.

ARL. Vorave sta volta che fessi a mio modo.

CON. Che cosa vorresti tu ch’io facessi?

ARL. Qualcossetta anca per la ragazza.

CON. Bene. Recale questa piccola tabacchiera. Ma bada bene che la madre non sappia della figliuola, e la figliuola non ha da saper della madre.

ARL. Sior sì, lassè far a mi... Ma un’altra cossa ghe vol.

CON. Che cosa?

ARL. Un regaletto alla cameriera.

CON. Che vuoi che le dia? Non ho niente in pronto.

ARL. Senza sto complimento, se scorre pericolo de no far gnente che staga ben.

CON. Eccoti uno scudo.

ARL. Sto scudo mo veramente lo tegnirave volentiera per mi.

CON. Fa come vuoi.

ARL. E per la cameriera?

CON. Sei un birbante, Arlecchino carissimo.

ARL. Sarà come che la dise ela.

CON. Ma per ora non ci è di più.

ARL. Son galantomo: me contento de quel che se pol aver. Vago a far el mio debito. La scatola alla madre, el stucchio alla fiola...

CON. No, l’astuccio alla madre...

ARL. Mi dirave el stucchio alla fiola.

CON. Perché?

ARL. Perché l’è una galantaria più da putta, che da maridada.

CON. Fa quello che ti ho ordinato di fare, e ricordati di regalare la cameriera.

ARL. E se la me dell’aseno?

CON. Non importa.

ARL. Sì, l’è la verità: se la me dise aseno, è segno che la me vol ben, che la desidera che gh’abbia del ben, perché i aseni al d’ancuo i xe quelli che gh’ha fortuna. (parte)

 

 

 


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