Carlo Goldoni
Il raggiratore

ATTO SECONDO

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ATTO SECONDO

 

 

 

SCENA PRIMA

 

Segue la stessa camera.

 

Jacopina e Arlecchino

 

ARL. Mo via, no siè cussì ingrata con chi ve vol ben.

JAC. Voi siete qui colle solite seccature.

ARL. Aveu paura che le mie seccature le ve fazza calar la carne?

JAC. Ho paura, se mi scappa la pazienza di dosso, avervi da dare qualche cosa nel grugno.

ARL. El grugno el gh’ha i porchi, patrona; no mi, che per soranome i me dise Arlecchin Visobello.

JAC. Chi diavolo è stato colui che vi ha posto il nome di Visobello?

ARL. Me xe stà sto bel titolo da una congregazion de femene, che cognosse el mio merito.

JAC. L’avranno detto per burlarvi, come si dice, per esempio, bravo ad un asino.

ARL. L’aseno el ghavè sempre in bocca.

JAC. Non me lo ricordo mai, se non quando vi vedo.

ARL. Acciò che el podè véder meggio, un’altra volta voio vegnir con un specchio.

JAC. Bricconaccio! credete che non vi capisca? Specchiatevi in una galera, che vedrete il vostro ritratto.

ARL. Giacomina, non andar in collera.

JAC. Se verrete più voi in questa casa, me n’anderò io.

ARL. Via, femo pase.

JAC. Con voi non voglio aver che fare.

ARL. Anca sì, che femo pase?

JAC. Oh, non vi è pericolo.

ARL. Ghe scometto un scudo, che femo pase.

JAC. Mi vien da ridere, quando dite di giuocare uno scudo. Se non avete un quattrino!

ARL. Mi no gh’ho bezzi? Come se chiamelo questo? (mostra lo scudo)

JAC. Si chiama scudo. Dove l’avete avuto?

ARL. Oe, digo, ve piaselo adesso sto grugno? (s’attacca lo scudo alla fronte)

JAC. Ora mi piace; ora vi si può dir veramente Arlecchino Visobello.

ARL. Ghe zogo sto scudo, che tra vu e mi femo pase.

JAC. Come intendete voi di giuocare lo scudo? Se si fa la pace, ho da dare uno scudo a voi?

ARL. La scomessa la doverave esser cussì.

JAC. Non la facciamo in eterno.

ARL. Femo donca in sì altra maniera. Scometto sto scudo che tra vu e mi no se fa più pase.

JAC. Io posso giuocare che si farà.

ARL. Va un scudo.

JAC. Depositatelo nelle mie mani.

ARL. E vu cossa metteu su per scomessa?

JAC. La mia parola non vale?

ARL. Via, voggio crederve per el vostro scudo, ma no vorave rischiar el mio malamente.

JAC. Come sarebbe a dire?

ARL. No ve fidè de mi?

JAC. Non signore.

ARL. Femo cussì. Tegnimolo in deposito tutti do. Mezzo per omo.

JAC. Bene, date qui.

ARL. Eccolo. Tegnimolo in do. Va sto scudo, che no se fa la pase. (tengono lo scudo in due)

JAC. Va lo scudo, che si fa la pace.

ARL. Vu una femena ingrata.

JAC. Non parliamo più del passato.

ARL. M’avè strapazzà, m’avè dito aseno.

JAC. L’ho detto per ischerzo. Siete un uomo di garbo.

ARL. Sto muso xelo un grugno de porco?

JAC. No; anzi avete un visino bello, bellissimo.

ARL. Se no me podè véder.

JAC. Se siete anzi il mio caro.

ARL. El vostro caro?

JAC. È fatta la pace?

ARL. Oibò. Voggio vendicarme delle insolenze che ho ricevesto.

JAC. In questa maniera la pace non si farà mai.

ARL. E el scudo el resterà per mi.

JAC. (Lo vorrei per me, se potessi). (da sé)

ARL. (Se l’ho da spender, no lo vol buttar via). (da sé)

JAC. Via, caro Arlecchino, amor mio, vita mia.

ARL. Ste parolette dolce no le basta, patrona, per obbligarme; ghe vol qualcossa de meio.

JAC. Poverino! povero Arlecchino! (accarezzandolo modestamente)

ARL. Me principia a passar la collera.

JAC. Datemi la vostra manina, caro.

ARL. Baroncella!

JAC. Siete grazioso, amabile, mi fate proprio ardere per vostro amore.

ARL. Vago in acqua de viole.

JAC. È fatta la pace?

ARL. Sì, la xe fatta.

JAC. Lo scudo è mio

ARL. El scudo xe vostro.

JAC. Ora che ho guadagnato lo scudo, andatevi a far squartare.

ARL. Come! sto tradimento? El mio scudo.

JAC. La scommessa è stata per far la pace; la pace è fatta, lo scudo è mio. Non ho promesso che la pace duri. E se volete che il vostro viso mi piaccia, copritelo tutto di questa roba, altrimenti, signor Arlecchino, non sperate mai e poi mai che il vostro grugno mi piaccia. (parte)

 

 

 


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