Carlo Goldoni
Lo spirito di contradizione

ATTO PRIMO

SCENA SECONDA   Dorotea ed i suddetti

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SCENA SECONDA

 

Dorotea ed i suddetti.

 

DOR.

Serva, signori miei. Di lor chi mi domanda?

RIN.

Mio padre vi desidera.

DOR.

Son qui. Che mi comarda?

FER.

Nuora mia dilettissima, presso di me sedete;

Del mio amor di mia stima, un nuovo segno avrete.

Per la figliuola mia noto vi è già il trattato;

Ora par che l'affare sia bello e terminato.

Ma prima di concludere le nozze infra di noi,

Desidero che intesa ne siate ancora voi.

RIN.

Ora per mio consiglio vi hanno perciò chiamato.

(Non vorrei che dicesse, che io non ci ho pensato). (da sé)

DOR.

È un onor ch'io non merito, la grazia che or ricevo.

Il suocero ringrazio per simili favori,

Ringrazio mio consorte, ringrazio lor signori;

E di cuor mi rallegro del ben di mia cognata,

Che può, per nozze tali chiamarsi fortunata.

FER.

(Vedete, se fu bene farle un tal complimento?) (a Gaudenzio)

GAU.

(Finor per dir il vero, di lei non mi scontento).

FAB.

Con voi se imparentarsi mio figlio avrà l'onore,

Vi sarà in ogni tempo cognato e servitore.

ROB.

E con verace stima, e con sincero affetto,

Procurerò di darvi dei segni di rispetto.

RIN.

Vi prego in sua presenza di leggere il contratto. (a Gaudenzio)

DOR.

È concluso l'affare?

GAU.

Sì, è stabilito affatto.

DOR.

Bravissimi: vi lodo. Voi mi avete chiamata,

In tempo ch'è ogni cosa conclusa e terminata.

Per simile finezza vi ringrazio davvero,

Così non avrò briga di dire il mio pensiero.

RIN.

Vi dolete non essere stata chiamata in prima?

DOR.

Oh no, signor consorte, conosco quanta stima

Fa di me questa casa. Comprendo che chiamarmi

Non ha voluto innanzi, per meno incomodarmi.

Che poteva una donna del mio discernimento

Suggerire a quattr'uomini di senno e di talento?

E poi di una consorte è inutile il consiglio,

Dove comanda il padre, dove dispone il figlio.

Con uomini di garbo a noi parlar non tocca

Femmine destinate al fuso ed alla rocca.

GAU.

(Sentite?) (a Ferrante)

FER.

Cara nuora, se io non vi stimassi,

Qual ragione obbligarmi potea ch'io vi chiamassi?

Ancor di queste nozze non è firmato il foglio,

E i vostri sentimenti pria di firmarlo io voglio.

DOR.

No, signor, vi ringrazio. (s'alza)

RIN.

Datemi un tal contento.

DOR.

Bene, l'ascolterò per mio divertimento.

FER.

Via, Gaudenzio, leggete.

GAU.

Leggiamolo in buon'ora.

FAB.

Quello ch'è fatto, è fatto. (a Roberto)

ROB.

Ho dei timori ancora. (a Fabrizio)

GAU.

«Col presente chirografo, che per consentimento

Delle parti avrà forza di pubblico istrumento,

Che in faccia ai testimoni sarà corroborato

Di man di contraenti soscritto e confermato,

Promette l'illustrissimo signor Ferrante...»

DOR.

Oh bello!

Proprio quell'illustrissimo vi è calzato a pennello.

GAU.

Vuole la convenienza, che in occasion simili

Si onorino le case degli uomini civili.

FER.

Che vorreste voi dire con questa intemerata?

In casa di villani non siete maritata.

DOR.

Perdoni vossustrissima. Mai più non parlerò. (a Ferrante)

RIN.

Dorotea, siete in collera?

DOR.

Illustrissimo no.

GAU.

Quand'è così, signora, mi aspetto ad ogni articolo,

Che lo facciate apposta per mettermi in ridicolo.

FAB.

Fin qui, per dir il vero, mi par che abbia ragione

Di mettere in ridicolo codesta affettazione.

I titoli a che servono? che val la vanità?

Son tutti pregiudizi cresciuti coll'età.

Signora Dorotea, vi lodo, e vi professo

Che trovomi con voi d'un sentimento istesso.

Se avrò con queste nozze l'onor di praticarvi,

Non abbiate timore ch'io venga ad illustrarvi.

Mi piacciono le donne qual voi di buona pasta:

Buon giorno, vi saluto, vi riverisco, e basta.

DOR.

Signor, con buona grazia, chi credete ch'io sia?

Sempre dell'illustrissima mi han dato in casa mia.

Nobile è mio marito, del fior della Toscana;

Buon giorno, vi saluto, si dice a una villana.

FAB.

Credea di compiacervi, signora, in mia coscienza.

DOR.

Oh, vi darò la mancia per sì gran compiacenza.

Seguitate, signore. (a Gaudenzio)

ROB.

(Ecco il stile ordinario.

Dite di sì o di no, risponde all'incontrario). (da sé)

GAU.

«La signora Camilla concedere in isposa

Al nobile signore Roberto Bellacosa,

Ed il signor Roberto l'accetta qui presente,

Ed il signor Fabrizio all'obbligo acconsente,

Coi patti e condizioni che appiè si leggeranno,

Per concluder le nozze nel termine d'un anno...»

DOR.

Come! un anno di tempo? Io non son persuasa

Che abbiasi per un anno tal seccatura in casa.

Vorrà venir lo sposo, e avrà la sua ragione;

Ma io, signori miei, non vuò tal soggezione.

GAU.

Ecco una novità.

ROB.

Signora, io vi prometto...

DOR.

In questo, compatitemi, parlovi tondo e schietto.

So di una sposa in casa la soggezion qual è.

Veggo che questo lotto ha da toccare a me.

O che si sposi subito, o fuor di queste porte

Io vado immantinente, unita a mio consorte.

FER.

Cosa dici, Rinaldo?

RIN.

Veggo, conosco anch'io...

DOR.

Senza tanti discorsi farete a modo mio. (a Rinaldo)

O il contratto si regoli con altre condizioni,

O fuor di questa casa senza ascoltar ragioni.

ROB.

Stabilito il contratto, vi par, signor Ferrante,

Ch'io comparir non debba alla mia sposa innante?

FAB.

Mio figlio è galantuomo, non merta un simil torto.

GAU.

(Il contratto va in fumo. Già me ne sono accorto).

FER.

Nuora, le mie ragioni tutte vi farò note.

Si è preso tempo un anno per causa della dote.

Se questa fosse pronta, vorrei, per soddisfarvi,

Maritandola subito l'incomodo levarvi.

ROB.

Signor, circa la dote, per me è la stessa cosa...

FAB.

Taci tu, che non c'entri. Qua il danar, qua la sposa.

DOR.

Prima ch'io mi sposassi, pareva che qua drento

Vi fosse l'abbondanza dell'oro e dell'argento.

Ora, per quel ch'io vedo, siam belli e corbellati.

Quanto date alla figlia? centomila ducati?

FER.

Le do la stessa dote, che voi portata avete.

DOR.

Diecimila ducati dunque non li averete?

FER.

Li avrei, se non avessi pel vostro sposalizio

Mandata, si può dire, la casa in precipizio.

Basta, più non si parli, che a dirlo io mi vergogno.

Camilla è mia figliuola, dee avere il suo bisogno.

Vi preme che sen vada? Se ne anderà; facciamo

Un negozietto insieme, e quest'affar spicciamo.

Voi ci portaste in dote diecimila ducati;

Questi dal vostro padre ci furono girati,

E sussistono ancora nel pubblico deposito.

Cedendoli a Camilla...

DOR.

Non fo questo sproposito.

S'ella coi miei danari aspetta a maritarsi

Può star fino che campa in casa a consumarsi.

FER.

Sarà la vostra dote sui beni miei fondata.

DOR.

Voglio il mio capitale, col qual fui maritata.

GAU.

Dunque, signori miei, si può stracciare il foglio.

FER.

Data ho la mia parola, e mantenerla io voglio.

DOR.

Mantenetela pure.

FAB.

Non voglio una disgrazia.

RIN.

Ma via, cara consorte...

DOR.

Tacete, malagrazia.

ROB.

A costo d'ogni cosa, signor, chiedo perdono,

Voglio la mia Camilla. (a Fabrizio)

FAB.

Taci, tuo padre io sono.

GAU.

Ora un pensier mi viene, comunicarlo io voglio;

Se questo non vi comoda, può lacerarsi il foglio.

Prendasi per la dote un anno di respiro,

E intanto la fanciulla si metta in un ritiro.

DOR.

Bravo, signor Gaudenzio, vada in un altro loco,

E aspettino anche un secolo, che me n'importa poco.

FER.

Povera la mia figlia! perché andar rinserrata?

Ma via, pur che s'accomodi, che sia sagrificata.

Voi genero, soffrite l'incomodo di un anno.

ROB.

Pazienza; sarò pronto a tollerar l'affanno.

FAB.

Concludasi una volta.

GAU.

Su via, sottoscrivete.

A voi, signor Ferrante: la dote promettete,

Ed il signor Rinaldo ne sia manutentore.

DOR.

Manutentor Rinaldo? V'ingannate, signore. (s'alza)

Rinaldo è mio marito. Fin che sua moglie vive,

Contratti, obbligazioni, affé non sottoscrive. (a Gaudenzio)

Andiam, venite meco, vi ho da parlar di cosa

Di questo bel contratto assai più premurosa. (a Rinaldo)

Con licenza, signori; senza di lui potete

Prometter, sottoscrivere, concluder se volete.

L'illustrissimo padre può dispor da sé solo,

Senza dell'illustrissimo Rinaldo suo figliuolo.

Presto, venite meco; la cosa è importantissima;

Non mi fate arrabbiare. Serva di vossustrissima. (a Ferrante, e parte; poi a suo tempo ritorna)

RIN.

Con permission... (in atto di partire)

FER.

Rinaldo, temi tu della moglie?

Non sei dopo di me padrone in queste soglie?

RIN.

Differite anche un poco la mia sottoscrizione:

Sapete della bestia qual sia l'ostinazione.

Lo so che dall'impegno sottrarmi non conviene;

Lo farò quanto prima.

DOR.

Si viene, o non si viene?

RIN.

Vengo sì, non gridate. Servo di lor signori. (parte)

DOR.

Chi sente lui, son io la fonte dei rumori.

Eppur per questa casa non so che non farei,

Pel suocero e lo sposo il sangue spargerei.

Voglio bene a Camilla, come a una mia sorella,

Bramo che sia contenta la povera zitella.

Fare saprei con essa le veci di una madre,

Avrei cuor, se occorresse, di sollevare un padre.

E femmina qual sono, avrei bastante ingegno

Di far felicemente concludere l'impegno.

Ma far senza ch'io sappia, e all'ultimo chiamarmi

Lasciate ch'io lo dica, è un modo di burlarmi.

So le mie convenienze. L'ordine lo capisco.

FER.

Via, con voi tratteremo.

DOR.

No no, vi riverisco. (parte)

FER.

Per dir la verità, lo so ch'è di buon cuore;

Ma si è messa in puntiglio. Pregovi di un favore

Soscrivere il contratto per ora sospendiamo,

E lei colla dolcezza di guadagnar proviamo.

FAB.

No, no, liberamente vi dico i sensi miei:

S'è donna puntigliosa, lo sono al par di lei.

Se ha posto in soggezione il suocero e il marito,

Per me, ve lo protesto, l'affare è già finito.

Più fra noi non si parli di matrimonio, e tu

Fuori di questa casa, e non venir mai più.

ROB.

Chetatevi, signore...

FAB.

Via di qua immantinente.

ROB.

Il mio cuor, la mia sposa...

FAB.

Vattene, impertinente.

ROB.

(Di perdere il mio bene, no, non poss'io soffrire.

Voglio la mia Camilla a costo di morire). (da sé, indi parte)

FAB.

Schiavo, signori miei.

FER.

Come, signor Fabrizio,

Mandar per così poco l'affare in precipizio?

E voi, signor Gaudenzio, mutolo siete fatto?

GAU.

Non voglio più saperne, e lacero il contratto.

Ho fatto assai finora a avermi trattenuto.

Compatite di grazia, amico, vi saluto. (parte)

FAB.

Vergogna, che una donna giungavi a far paura.

FER.

Eccomi. A suo dispetto...

FAB.

Stracciata è la scrittura. (parte)

FER.

Ma io nella muraglia mi batterei la testa.

Vuol comandar la nuora? che impertinenza è questa?

E mio figlio medesimo cotanto è scimunito,

Che una moglie insolente può renderlo avvilito?

Eh cospetto di bacco, vuò far veder chi sono;

Ma mi confondo anch'io, quando con lei ragiono.

Pacifico fu sempre il mio temperamento.

Colei che lo conosce, mi ha preso il sopravvento.

Rinaldo ch'è mio figlio, anch'ei va colle buone,

E dubito ch'egli abbia paura del bastone.

Finora delle risse abbiam sfuggito il tedio,

Ora che il male è fatto, difficile è il rimedio.

Della bontà soverchia, eccolo qui il bel frutto:

La femmina orgogliosa vuol contradire a tutto.

Vorrei di queste donne averne un centinaio,

E come la triaca pestarle in un mortaio. (parte)

 

 

 


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