Carlo Goldoni
La scuola di ballo

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Personaggi

 

MONSIEUR RIGADON maestro di ballo.

MADAMA SCIORMAND sua sorella.

GIUSEPPINA scolara di monsieur Rigadon.

ROSALBA scolara di monsieur Rigadon.

FELICITA scolara di monsieur Rigadon.

ROSINA scolara di monsieur Rigadon.

FILIPPINO scolaro di monsieur Rigadon.

CARLINO scolaro di monsieur Rigadon.

LUCREZIA madre di Rosina.

Il CONTE ANSELMO amante di Giuseppina.

Don FABRIZIO impresario.

RIDOLFO sensale, amante di madama Sciormand.

TOGNINO servitore di monsieur Rigadon.

FALOPPA servo del conte Anselmo.

Un NOTARO.


 

 

 

ATTO PRIMO

 

 

 

SCENA PRIMA

 

Sala del maestro di ballo.

 

Monsieur Rigadon, Giuseppina, Rosalba, Felicita, Filippino, Carlino, altri ballerini e ballerine; tutti a sedere, fuorchè Rigadon. Mentre di vedono questi due in azione, Felicita imparando a ballare il minuetto, e Rigadon insegnandole col suo violino

 

RIG.

Alto con quella testa: il petto in fuori:

Quelle punte voltate un poco più:

Quei ginocchi ogni si fan peggiori,

E volete ballare il padedù?

Ballate il malanno che vi colga;

Quella testa, vi dico, alzate in su.

E non è giusto che di voi mi dolga?

Son tre anni che sudo e mi affatico,

E non v'è dubbio, che un danar ricolga.

Ve l'ho detto più volte, e vel ridico:

Felicita, al mestier voi non badate;

E mi servite solo per intrico.

FELIC.

Signor maestro, non vi riscaldate;

Se non faccio per voi, me n'anderò,

Ch'io non voglio soffrir queste seccate.

RIG.

Sì, gioja mia, ve n'andereste, il so, (ironico)

Dopo che per tre anni v'ho insegnato;

La mia scrittura mantenere io vo';

Voglio de' miei sudori esser pagato;

Vo' che andate in teatro, o male o bene;

E dovrete ballar, se avete fiato.

FELIC.

Oh in questo poi da ridere mi viene.

In teatro non vo, vi parlo chiaro,

men se mi strascinan le catene.

Se disposta non son, se non imparo,

Non vo' farmi burlar pubblicamente

Per compiacer ad un maestro avaro.

RIG.

Fate il vostro dovere, impertinente;

O farò contro voi qualche ricorso,

E dovrete ballar forzatamente.

FELIC.

Terminiamo, signor, questo discorso.

Ballerò, se vorrò. Se non vi piace,

Andate a farvi pettinar da un orso.

RIG.

Così si parla, petulante, audace?

(Ma questo è l'uso delle mie scolare,

E mi conviene sopportarlo in pace.

Oggi siam tanti che, chi vuol mangiare,

Navigare convien con la tempesta).

Filippino.

FILIP.

Signor.

RIG.

Vieni a ballare.

FILIP.

Ho un dolore in un piè, che mi molesta.

RIG.

Rosalba, venga a far le parti sue.

ROSAL.

Questa mane, signor, mi duol la testa.

RIG.

Che la testa vi caschi a tutti due.

Si pensa solo a far l'amor, bricconi;

Ed a ballar non ci si pensa piue.

E i maestri han da star come talponi?

E han da perdere il tempo inutilmente?

Queste son proprio disperazioni.

Carlino.

CARL.

Eccomi qui.

RIG.

Tu più valente

Mostrati di costoro. Buon ragazzo,

Vieni alla lezion immantinente.

CARL.

Con licenza, signor. (per partire)

RIG.

Non fate il pazzo.

CARL.

Dei calzon mi si è rotta la cintura:

Vado, e ritornerò. (via)

RIG.

Se non impazzo,

È un miracolo certo. Ognun procura

Di farmi disperar sera e mattina,

E mi voglion cacciare in sepoltura.

Hanno il diavolo in corpo. Giuseppina.

GIUS.

Signor. (s'alza)

RIG.

Venite qui. Facciam qualcosa,

Non mi fate arrabbiar; siate bonina.

So che siete per me la più amorosa,

Che mi volete bene, ed io prometto

Rendervi nel mestier la più famosa.

GIUS.

Grata vi son del parziale affetto.

Caro maestro mio, voi siete il solo

Mio dolce amor. (Sel crede il poveretto). (da sé)

RIG.

Sì, ne sono sicuro, e mi consolo

Quando parlo con voi, quando vi vedo,

Che propriamente mi andate a fagiuolo.

Il conte Anselmo che vien qui, non credo

Che altro esiga da voi che buona ciera,

E per questo trattarlo io vi concedo.

È vero che alla cena di iersera

Vi parlò nell'orecchio eternamente,

E non mi piacque quella sua maniera.

Ma pensai ch'egli spende, e civilmente

Soffrir si può da un uomo generoso

Qualche scherzo giocoso indifferente.

Io non sono perciò di lui geloso;

Coltivatelo pur; ma non vorrei,

Che mi faceste perdere il riposo.

GIUS.

Oh caro maestro mio, so i dover miei;

E se un re mi volesse incoronare,

La corona per voi rinunzierei.

Ma son povera figlia, e col ballare

Non mi lusingo di una gran fortuna,

E voi pochino mi potete dare.

In casa vostra spesso si digiuna;

Il Conte manda sempre qualcosetta,

Ed io lo fo senza malizia alcuna.

RIG.

Sì, dite ben, che siate benedetta.

Volete che proviam quel ballo nuovo?

GIUS.

Obbedire al maestro a me si aspetta.

RIG.

Tutti i spiacer che dai scolari io provo,

Compensati mi son da quell'onesta

Bontà, che in voi per mia ventura io trovo.

Principiamo. (vuol ballare con Giuseppina)

 

 

 

SCENA SECONDA

 

Lucrezia e detti.

 

LUCR.

Oh di casa. (di dentro)

RIG.

E chi è cotesta

Che mi viene a seccar? Se con voi sono,

Ogni cosa m'inqueta e mi molesta.

LUCR.

Signor maestro, chiedovi perdono.

Ho una cosa da dirvi in confidenza;

Ma in presenza di tanti io non ragiono.

RIG.

Giuseppina, mi date la licenza

Di ascoltar questa donna?

GIUS.

Volentieri:

So del vostro mestier la convenienza.

Vostra sorella mi ha pregato ieri

Le facessi una cuffia; andrò frattanto

A dar mano per essa ai lavorieri.

(Egli mi crede, e mi approfitto intanto

Della sua buona fede a mio talento:

Questo maestro mio per me è un incanto). (via)

RIG.

Signori miei, nell'altro appartamento

Ad attendermi andate. È necessario

Che mi lasciate qui per un momento.

Aspetto questa mane un impresario,

Che vuol far compagnia di danzatori,

E si ha a trattar di posto e di onorario.

Per non incomodar loro signori

Più del dovere, alla mia parca mensa

Gradirò questa mane i lor favori.

FILIP.

Le grazie che il maestro ci dispensa,

Accetterem con giubilo infinito. (via)

RIG.

(Quando do da mangiar, ciascun m'incensa). (da sé)

ROSAL.

Grata vi son del generoso invito. (a Rigadon)

RIG.

Non vi duole più il capo?

ROSAL.

Signor no.

La vostra cortesia me l'ha guarito. (via)

RIG.

(Medicato ho il suo male, anch'io lo so.

Ama di Filippin la compagnia,

E il mezzano innocente a loro io fo). (da sé)

FELIC.

Serva, signor maestro.

RIG.

Andate via?

FELIC.

Signor no, se c'invita a desinare,

Ricusarlo sarebbe scortesia. (via)

RIG.

Sì sì, quando si tratta di mangiare,

Felicita è cortese. Io mi confido

Nel conte Anselmo. Il manderò a avvisare.

Ei che di generoso aspira al grido,

Manderà da pranzar per tutti noi,

In grazia di colei, ch'è il suo Cupido.

Ora, signora mia, sono con voi.

Compatite di grazia. (a Lucrezia)

LUCR.

Eh sì signore:

Ognun far deve gl'interessi suoi.

So che voi siete un uomo di valore:

Ho una figlia che balla, e bramerei

Che in grazia vostra si facesse onore.

Son nata bene, e se i parenti miei

Non mi avessero tutti abbandonata,

In carrozza coi paggi andar potrei.

Per mantener la figlia mia onorata,

E fuor d'ogni pericolo del mondo,

Sul teatro ballar l'ho consigliata.

La pura verità non vi nascondo;

Ha la mia figlia abilità infinita;

Ma a pagar il maestro io mi confondo.

Se vedeste, signor, che bella vita!

Che grazia, che beltà, che portamento!

E quel che stimo, non è figlia ardita.

Quando potei, per suo divertimento

Insegnare le feci; ed or, meschina!

Trar dee dal ballo il suo sostentamento.

Se volete veder la mia Rosina,

Or la faccio venir; sta qui di fuori,

Accompagnata da una sua vicina.

Ehi sentite: pericolo d'amori

Non ci sarà; non vo' che la mia figlia

Abbia intorno serventi o protettori.

Vi è un cavalier, che per la mia famiglia

Ha della carità, che mi soccorre

Che mi aiuta, mi assiste e mi consiglia.

Ei per la figlia mia fa quel che occorre

Ma è solo e vecchio, è un cavalier dabbene,

E di cose d'amor non si discorre.

Ecco Rosina, eccola che viene.

La raccomando a voi, la poverina;

Siatele padre, e fatele del bene.

RIG.

Io mi credea che tutta la mattina

Andaste dietro a favellar voi sola

Della vostra bellissima Rosina.

Dirvi non ho potuto una parola

E aspetto di rispondere a dovere

Quando avrò esaminato la figliuola.

 

 

 

SCENA TERZA

 

Rosina e detti.

 

LUCR.

Siete a tempo venuta.

ROS.

Sto a vedere

Che vi siate di me scordata affatto

I' era stucca di star a sedere.

RIG.

La mamma vostra un cicalare ha fatto

Così lungo di voi, che si è scordata

Di dir: salisci, figliuola, ad un tratto.

LUCR.

Lasciam ire cotesto. Or che mirata

L'avete, che vi par della fanciulla?

Non è proprio una giovane garbata?

Badate a mene, non le manca nulla;

Larga di spalle, e stretta di cintura

La gamba ha forte come una maciulla.

RIG.

Madonna mia, se mai per avventura

Vi credeste parlar con qualche cieco

Util saria la vostra dipintura.

Ma vi vedo, sorella, ed ho qui meco,

Pronto al bisogno, il mio signor violino,

Con cui far possa esperïenza seco.

Fate la riverenza. (a Rosina)

LUCR.

Un bell'inchino. (a Rosina)

ROS.

(Fa la riverenza del minuè)

LUCR.

Fa gli inchini, se vuol, ancor più bassi.

RIG.

Per dir la verità, li fa benino.

Fate del minuè tre o quattro passi.

ROS.

(Fa i passi del minuè)

LUCR.

Vedete se non pare una matrona,

E non v'è dubbio che il tambur si squassi.

RIG.

Dite, figliuola mia, sareste buona

Di alzar un poco la capriola in alto?

ROS.

Mi proverò. (s'alza)

RIG.

Brava.

LUCR.

Non si canzona. (applaudendo alla figlia)

Vi farà, se volete, ancora il salto...

Quel salto che facea nella furlana

Quel ballerino dagli occhi di smalto.

RIG.

Basta così per or; la caravana

Bisogna fare, e principiar da capo

Per imparar la scuola di Toscana.

Se la vostra figliuola ha sale in capo

Circa l'abilità non mi scontento,

E in poco tempo noi verremo a capo.

Ma qual sarebbe il vostro sentimento?

Mi volete pagare un tanto al mese,

O volete facciamo un istrumento?

LUCR.

Ora non sono in caso di far spese.

Che ti pare, Rosina? Cosa ha detto

Questa mattina il povero Marchese?

ROS.

Disse, che se bastasse un regaletto,

Lo darebbe al maestro; una mesata

Non è in caso di darla.

RIG.

Parlò schietto.

Quello dunque facciam, che alla giornata

Praticare si suol: le insegnerò

Fino che mi parrà perfezionata;

Procurarle i teatri io penserò,

E di quel che la giovane guadagna,

Per dieci volte la metade avrò.

E se va, per esempio, in Francia o in Spagna,

Voglio la mia metà dall'impresario.

LUCR.

Ed intanto, signor, cosa si magna?

RIG.

Han le scolare mie per ordinario

Qualchedun che le aiuta.

LUCR.

In casa mia

Va la cosa per or tutto al contrario.

Quel cavalier, che non vo' dir chi sia,

Quando n'ha avuti, n'ha sprecati assai;

Ma è rifinito, e non è quel di pria.

Io, monsieur Rigadon, mi lusingai

Che faceste le spese alla figliuola,

Sicuro di non perdere giammai.

RIG.

Anche questo farò; ma fra la scuola

E il mangiare e il dormire, almeno, almeno,

D'altre recite dieci io vo' parola.

LUCR.

Ed io, caro signor, che stento e peno,

Non avrò da mangiar colla mia figlia?

Già mangio poco, e la sera non ceno.

RIG.

Ho da fare le spese alla famiglia,

Ho da insegnar, ho d'arrischiare il mio?

Questa cosa, per dirla, mi scompiglia.

LUCR.

Fatel, per carità.

RIG.

Son uomo pio,

Lo farò volontier; ma con un patto,

Che trenta volte la metà vogl'io.

LUCR.

Dunque la figlia mia può far contratto

Finché vive ballar per il maestro,

Senz'alcuna speranza di riscatto.

RIG.

Io non intendo mettervi il capestro.

Se non vi piace, andate alla buon'ora

Ch'io per mercede le ragazze addestro.

LUCR.

(Tu che dici, Rosina?) (a Rosina)

ROS.

(Eh sì, signora.

Accordiamogli pur quel ch'ei domanda.

Simili patti son voluti ancora). (a Lucrezia)

RIG.

E se qualcuno a regalar vi manda,

Consegnatelo a me subitamente,

Ch'io ve lo voglio mettere da banda.

Poiché, oltre al mangiar perpetuamente,

Occorron cento coserelle intorno;

E i' non voglio per ciò spender niente.

ROS.

Dice ben, dice bene. (Verrà il giorno

Che farò a modo mio). (da sé)

LUCR.

Resta accordato,

E farem fra due ore a voi ritorno.

RIG.

Eh vi è tempo; già il mese è principiato.

LUCR.

No no, verremo a desinar da voi.

So che degli altri voi avete invitato.

ROS.

Serva, signor maestro.

RIG.

Un giorno poi

Di qualche buon precetto salutare

Parleremo in segreto fra di noi.

Questo sempre ho avvertito alle scolare:

Badate bene a non seccar la gente:

Pelar la quaglia, e non la far gridare.

LUCR.

Eh, in questo poi non temete niente;

Io son sua madre, e in simile faccenda

Sono stata ancor io donna eccellente. (via)

RIG.

Addio. (a Rosina)

ROS.

Serva.

RIG.

Non fate che vi attenda

Lungamente a pranzar.

ROS.

Verrò prestissimo. (via)

RIG.

Questa ragazza ha abilità stupenda.

Poi ha un occhio brillante e vivacissimo:

È bella; e mi dispiace, a dir il vero,

Ch'io sono a innamorarmi facilissimo.

Sia vizio di natura, o del mestiero,

Quando mi si presenta una scolara,

Bella o brutta che sia, piacerle io spero.

È ver che Giuseppina è la mia cara,

Ma se mi prendo qualche libertà,

Ella pur non sarà con tutti avara.

Affé di Dio, che il conte Anselmo è qua.

Io mi voglio provar, giacché è venuto,

Di prevalermi della sua bontà.

 

 

 

SCENA QUARTA

 

Il Conte Anselmo, Faloppa e detto

 

RIG.

Servo del signor Conte.

CON.

Vi saluto.

Che fate? State ben?

RIG.

Per obbedirla.

CON.

Eccovi del rapè. (gli offre del tabacco)

RIG.

Non lo rifiuto. (lo prende)

CON.

Giuseppina che fa?

RIG.

Non so, per dirla.

Credo sarà a studiar la lezione.

CON.

Si potrebbe veder?

RIG.

Sarà a servirla.

CON.

Permettete ch'io vada?

RIG.

Ella è padrone;

Ma mi dispiace, che per rio destino

Troverà la famiglia in confusione.

CON.

Perché?

RIG.

Perché la bestia di Tognino

Mio servitore ha fattogran foco,

Che s'è accesa la canna del cammino.

E mi dispiace ch'egli è un tristo cuoco,

E il tempo passa, e affé questa mattina,

Per quel ch'i' vedo, si vuol mangiar poco.

E mi rincresce per la Giuseppina

Ch'è delicata, e se non ha buon brodo,

Non c'è dubbio che mangi, poverina.

CON.

Non si può rimediare in qualche modo?

Volete che mandiam dal pasticciere?

RIG.

La mi farebbe un gran piacer sul sodo.

CON.

Faloppa.

FAL.

Mio signor.

CON.

Va un po' a vedere,

Se il pasticcier può farmi un desinare. (a Faloppa)

E per quanti si avrebbe a provvedere? (a Rigadon)

RIG.

Non vorrei che s'avesse a incommodare.

Ma a dir la verità, questa mattina

Credo saremo dodici a mangiare.

CON.

Dodici? e perché tanti?

RIG.

Giuseppina

Ha voluto invitar le sue compagne,

E saran poco men di una dozzina.

Se non ha quel che vuol, s'arrabbia e piagne:

Ma io, che non ho il modo di far spese,

Posso empirle di cavoli e lasagne.

CON.

Vanne, e dirai al pasticcier francese,

Che prepari per dodici persone

Un desinare all'uso del paese.

Hai capito? (a Faloppa)

FAL.

Ho capito l'intenzione;

Poco e polito all'uso fiorentino,

Perché il troppo mangiar fa indigestione. (via)

RIG.

Mi dispiace davvero, che il destino

Abbia da far cader sopra di lei

La disgrazia fatal del mio cammino.

CON.

No, monsieur Rigadon, coi pari miei

D'uopo non v'è d'affaticar l'ingegno;

Più leale e sincero io vi vorrei.

Già del vostro pensier son giunto al segno;

Di compiacervi il mio desire agogna.

Lo farò con amore e con impegno.

Per Giuseppina, per voi quel che bisogna

Comandatemi pur liberamente;

Ma frezzare in tal modo è una vergogna. (via)

RIG.

Affé che l'ha piantata dolcemente,

E mi credea d'aver pensato in guisa

Da non scoprirmi così facilmente.

Alla fin fine vo' gettar in risa;

Ei viene a incommodarmi in casa mia,

Ed io non vesto colla sua divisa.

Non faccio il ballerin per bizzarria;

Ho lasciato di fare il parrucchiere

Per insegnare la coreografia.

È ver che poco ne poss'io sapere,

E che i bravi maestri m'odian tutti,

Perché vado sporcando il lor mestiere.

Ma intanto i' colgo dell'industria i frutti,

E monsieur diventai colla bravura

Di storpiare le fanciulle e i putti.

E mia germana, postasi in altura,

Della mia nobiltà si pavoneggia,

Ch'è propriamente una caricatura.

Crede che questa casa sia la reggia,

Che ogni scolara suddita le sia;

E ciascun dolcemente la pasteggia.

Ma il Conte è entrato dentro, e non vorria

Che a Giuseppina facesse il galante:

Qualche volta ho un tantin di gelosia.

Ho delle ballerine tante e tante,

Ma questa più dell'altre mi ha colpito

Colla grazia, col vezzo e col sembiante.

E mi lusingo d'esserle marito,

E quando arriverà ad esser mia sposa,

Forse d'esser geloso avrò finito,

Ché l'amante e la moglie è un'altra cosa. (via)


 

 

 

ATTO SECONDO

 

 

 

SCENA PRIMA

 

Don Fabrizio e Ridolfo.

 

RID.

Questa è la casa del signor maestro.

L'ho fatto domandare; ora verrà,

Ma vi avverto, signor, ch'è un uomo destro.

I ballerini suoi vi loderà,

Procurando esaltar per ordinario

Quelli che hanno minore abilità.

S'egli sa che voi siete un impresario,

Terrà in prezzo maggior la mercanzia;

Onde finger con esso è necessario.

Lasciate fare a me la parte mia;

Io conosco chi balla e chi non balla:

Già da voi non pretendo sensaria.

Un uomo vecchio del mestier non falla;

Anderò traccheggiando dolcemente,

Fino che al balzo ci verrà la palla.

FABR.

L'impresario so far passabilmente;

Ma conosco ancor io, che col sensale

I contratti si fan più facilmente.

RID.

Io li confondo a forza di dir male,

I suoi difetti glieli dico in volto,

Mostrando che di lor poco mi cale.

Eppur de' ballerini il popol folto,

E de' cantori e canterine a iosa,

Mi sta d'intorno, e si confidan molto,

Poiché la turba loro è numerosa,

E va mal la faccenda e soglion dire:

Più che niente, è meglio qualche cosa.

Gli impresari si vedon fallire

Per tutto il mondo, e per esser pagati

Musici e ballerini han da piatire.

Escono per lo più degli scannati

A pigliare i teatri, e degnamente

Veggonsi qualche volta bastonati,

E fanno di lontan venir la gente,

E prometton danari anticipati,

E ritiransi poi villanamente.

E d'accordo con altri interessati

Fingono sian cambiate le scritture,

E i virtuosi sono assassinati.

E vi son delle buone creature

Che si pigliano i posti altrui promessi,

Approfittando sulle altrui sciagure.

Ma un giorno forse proveranno anch'essi

Il medesimo tratto, ché non giova

Il vil guadagno a spalle degli oppressi.

Perciò quando un teatro si ritrova

Dove la paga poca sia, ma certa,

Facilmente il musico si trova.

Chi più sa a questo mondo, chi più merta,

Accomodar si dee all'occasioni,

Ed io la verità la dico aperta.

Ecco che viene dalle sue lezioni

Il maestro famoso; state attento

Com'io lo piglio senz'altri sermoni.

 

 

 

SCENA SECONDA

 

Monsieur Rigadon e detti.

 

RIG.

Domando a' lor signor compatimento,

Se ho tardato a venire.

RID.

Risparmiate

Quest'inutile e vano complimento.

A scolari, maestro, come state?

RIG.

Bene; ma bene assai, ve l'assicuro.

Roba perfetta.

RID.

Roba da sassate.

RIG.

D'ingannar le persone io non procuro.

RID.

Ci conosciamo. (Ehi, questi è un impresario.

Io fo le viste, e voi tenete duro). (a Rigadon)

RIG.

(Il sesto vi darò dell'onorario). (a Ridolfo)

Ridolfo, chi vi sente a dirne tante

Farà di me giudizio temerario.

E chi è questo signore?

RID.

È un dilettante,

Che vorrebbe imparar il minuetto.

RIG.

È cavalier?

RID.

No no, ricco mercante.

RIG.

Se comanda, signor, mi comprometto,

Che in meno di due mesi alle mie mani

Ella diventa un ballerin perfetto.

FABR.

Voi fate dunque de' prodigi strani.

Ho studiato degli anni, ed ho fin ora

Resi gli stenti dei maestri vani.

RID.

Per dir la verità, non vidi ancora

Un uom più franco in simile mestiere.

RIG.

S'ella comanda, principiamo or ora.

RID.

Camminato ha finor più del dovere.

È stanco, non è ver? (a Fabrizio)

FABR.

Passabilmente.

RID.

Via si riposi, e pongasi a sedere. (Fabrizio siede)

Eh monsieur Rigadon, ditemi intanto

Ch'ei riposa, Felicita s'è poi

Perfezionata?

RIG.

Cospetto! è un incanto.

Fino dal primo , sapete voi

Che abilità si conosceva in lei.

Ora fa quel che vuol co' piedi suoi.

RID.

Forse per essa occasione avrei:

La dareste per prima ballerina?

RIG.

Se la pagasser bene, la darei.

RID.

Quanto pretendereste?

RIG.

Ier mattina

Domandato ho per lei cento zecchini.

RID.

Basteria di zecchini una dozzina?

RIG.

Andate ad esibir questi quattrini

Ad una sciocca che ballar non sa;

Voi mi fareste uscir fuor dei confini.

FABR.

Ridolfo.

RID.

Mio signor.

FABR.

Venite qua.

(Diamine, gli esibiste troppo poco). (a Ridolfo)

RID.

(Lasci far il mestiere a chi lo fa). (a Fabrizio)

FABR.

brava?)

RID.

(È un capo d'opera).

FABR.

(Ci giuoco,

Ch'ei non la per meno di sessanta).

RID.

(Proverò di ridurlo a poco a poco).

RIG.

(Il merlotto ci casca). (da sé)

RID.

Senza tanta

Difficoltà, ditemi in confidenza:

Vi servirian se fossero quaranta? (a Ridolfo)

RIG.

Non la posso lasciare, in mia coscienza.

RID.

Dieci più, dieci meno...

RIG.

In verità...

RID.

Voler quel ch'uno vuole, è prepotenza:

Sì, ve l'accordo, ha dell'abilità;

Ma non è uscita sul teatro ancora,

E concetto acquistato ancor non ha.

La maschera mi levo. La signora

Felicita è richiesta per Pistoia,

E l'impresario eccolo in buon'ora.

RIG.

Siete, per dir il ver, la cara gioja.

Fingere il dilettante...

RID.

Orsù, finiamo,

Che queste baie mi recano noia.

Rispondetemi a tuono, e concludiamo.

Per cinquanta zecchini me la date?

RIG.

Sì, a modo vostro.

RID.

A far la scritta andiamo.

FABR.

Vorre' almeno vederla.

RID.

(Non lasciate

Che vi scappi di man questa fortuna:

La vedrete dappoi quanto bramate). (a Fabrizio)

FABR.

Andiam; non ho difficoltade alcuna.

RIG.

Venga pure. (via)

FABR.

Ridolfo è un uomo accorto. (via)

RID.

Va, che tondo tu sei come la luna. (via)

 

 

 

SCENA TERZA

 

Madama Sciormand e il Conte.

 

MAD.

Mi perdoni, signore, è questo un torto

Ch'ella fa alla mia casa. Il pasticciere

Che salisca le scale io non comporto.

CON.

Rispettate, madama, un cavaliere:

Se il desinar si manda in casa vostra,

Chiese vostro fratel un tal piacere.

MAD.

Degenerante mio fratel si mostra

Dal sangue nostro, e con azionvile

La fama oltraggia della stirpe nostra.

CON.

Siete dunque di stirpe signorile?

MAD.

Un sonator fu il nostro genitore,

Di cui al mondo non si diè il simile.

CON.

E menate per ciò tanto rumore?

Credeva, salmisia, che derivaste

Dalla costa di qualche imperatore.

MAD.

Ma le bell'arti a' nostri son guaste

Da tanti vili professori abbietti,

Ch'arder se ne potriano le cataste.

E quei che sono professor perfetti,

Come il nobile mio signor fratello,

Alle ingiurie del volgo van soggetti.

Oggi il ballo, signor, non è più quello;

La nobil danza non è più apprezzata,

Ma il ghignetto, la morfia e il saltarello.

Bella cosa vedere una spaccata!

La facessero gli uomini, pazienza;

Ma le donne la fanno alla giornata.

E si prendono tanta confidenza

Coi palchetti e il parter, che sembra loro

Discorrere e ballar coll'udienza.

Non si usa più quel nobile decoro

Nelle introduzion dei ballerini,

Che pagar si poteva a peso d'oro.

I poetici scherzi peregrini

Di Venere, di Giove e di Nettuno,

Son cambiati in Pandori o mattaccini.

Immaginar più non si vede alcuno

Reggie, macchine, altari, o cose tali,

Perché di ciò non è capace ognuno;

E si vedon talora i principali

In una sala riccamente adorna

Portar vanghe o altre cose manuali.

E se un po' di buon gusto non ritorna,

Sul teatro vedrem probabilmente

Anche il fornaio che la pasta inforna.

CON.

Voi, madama, parlate saviamente;

Ma il gusto d'oggi non è quel di pria,

E quel si fa, che suol gradir la gente.

Come il ballo variò la poesia,

E la buona commedia all'uso antico

Non si sa a' nostri che cosa sia;

E se qualcuno del buon gusto amico

Provasi riformare il mal costume,

Presto si fa l'universal nemico.

Per un poco si soffre il nuovo lume,

Ma presto sembra quella fiamma oscura,

E si apprezzan le vampe del bitume;

E ciaschedun che secondar procura

Il volubile genio delle genti,

È forzato cambiar stile e natura.

E voi, che delle femmine prudenti

Nel novero volete esser compresa,

Regolate coll'uso i bei talenti.

Non vi mostrate di dispetto accesa,

Se manda il pranzo un cavalier d'onore,

Né vi rincresca sparmiar la spesa;

Ché fra le mode questa è la migliore:

Vivere a spese d'altri se si può,

E blandire e adular chi è di buon core.

MAD.

Io le finezze disprezzar non so;

Ma il pranzo che ha recato il pasticciere,

Fu ordinato per me?

CON.

Madama no.

MAD.

Per chi dunque?

CON.

Dirò da cavaliere

La pura verità: per Giuseppina

Solo preso mi son questo pensiere.

MAD.

E una semplice abbietta ballerina,

Suddita del signor fratello mio,

Provvedere dovrà la mia cucina?

Degna di queste grazie non son io?

Ah pur troppo la sorte ai sciocchi arride;

E si abbandona il merito all'oblio:

Questo è quel che mi affanna e che mi uccide.

Han le scolare i protettori intorno,

E del merito mio nessun si avvide.

Ma so il perché; perché il mio viso adorno

Di finte grazie non alletta i stolti,

Grazie inventate del bel sesso a scorno;

Ma se vedeste smascherati i volti

Che vi paionvaghi, a me più tosto

Gli occhi sarian ammirator rivolti.

CON.

Dite, madama mia, ditemi tosto:

Il vostro volto non ha niente niente

Di quel bello che il ver ci tien nascosto?

MAD.

Con licenza, signor: l'impertinente

Giuseppina sen viene a questa volta;

Non mi degno di star con simil gente. (via)

CON.

Un discorso che spiace, non si ascolta.

Io la tocco sul vivo, ed ella tosto

Le spalle francamente mi rivolta.

 

 

 

SCENA QUARTA

 

Giuseppina e detto.

 

GIUS.

Signor Conte, che fa?

CON.

Sempre disposto, (inchinandola)

Giuseppina vezzosa, ad obbedirvi,

Fra i servi vostri desiando un posto.

GIUS.

Voi parlate così per divertirvi.

Voi siete il solo cui gradir mi piace,

E da voi stesso potete chiarirvi.

CON.

Di contradirvi non sarò sì audace;

Ma lasciate ch'io dica un mio pensiero:

Il maestro, mi par, non vi dispiace.

GIUS.

Ora mi fate rider daddovero.

Se faccio al poveruom qualche finezza,

Follo per imparar presto il mestiero.

Benché, per favellar con candidezza,

Il mestier del ballar mi piace poco,

E conosco che ho fatto una sciocchezza;

Ma se la provvidenza a tempo e loco

M'aprirà qualche strada, vel protesto,

Fuggo il ballar, come si fugge il foco.

Non dico che non sia mestiere onesto

Per chi ha buona intenzion di farlo bene,

Ma il teatro sovente è assai funesto.

Poco mi alletta grandïosa spene

Di far ricchezze; non son persuasa

Che si facciano a forza di far bene.

Per me starei più volentieri in casa,

Se lo volesse il ciel, con un marito;

Ché non son troppo dei piaceri invasa.

Ma la mia trista sorte ha stabilito,

Ch'io mi esponga allo scherno delle genti,

Che soffra il danno, e che mi morda il dito.

CON.

Giuseppina, codesti sentimenti

Sono degni di voi; me ne compiaccio,

E non avete favellato ai venti.

Quel che penso di voi, per ora io taccio;

Quando tempo sarà, voi lo saprete.

Le cose mie senza parlare io faccio.

GIUS.

Lo so, signor, che un cavalier voi siete

Pieno di carità; ne ho mille prove

Di quel tenero amor che per me avete.

Anche oggi, signor, con grazie nuove

Favorita mi vedo, e mi dispiace

Che tal gente indiscreta si ritrove:

E che il maestro un poco troppo audace

Valgasi del mio nome a satollare

Questa, dirò così, turba vorace.

Una cosa direi; ma no, mi pare

La proposizion troppo avanzata.

CON.

Ditela.

GIUS.

Ma vi prego a perdonare.

Se qualche cosa avete destinata

Per me, che tanto l'aggradisco e tanto,

Che non lo sappia tutta la brigata.

Se vi par ben, tiratemi in un canto:

Datemi il vostro don celatamente,

Ed io nascosto lo terrò frattanto.

Ma non state a gettare inutilmente

Il danaro in fatture; perdonate

Se vi parlo un po' troppo arditamente.

Quel che di regalarmi destinate,

Se lo date in danar, lo metto via,

E profitto del ben che voi mi fate;

E se mercé la vostra cortesia

In grado mi trov'io di prender stato,

Più non veggo teatro in vita mia.

Mi direte, signor, ch'io v'ho seccato.

CON.

No no, per dir il ver, un certo misto

Mi ha nel vostro parlar maravigliato

Ma la ragion della domanda ho visto;

Se il fondo è buono, come in voi mi pare,

Il fin non posso dubitar sia tristo.

Non è cosa ben fatta il domandare;

Ma in certi casi... Via, ve la perdono.

E saprò in avvenir quel che ho da fare.

 

 

 

SCENA QUINTA

 

Monsieur Rigadon e detti.

 

RIG.

(Eccoli qui davvero. Ancor ci sono). (da sé)

Servo del signor Conte.

CON.

Riverisco.

RIG.

L'avete ringraziato del suo dono? (a Giuseppina)

CON.

Non parlate di ciò, ve l'avvertisco:

lieve affar non merita la pena.

RIG.

Al mio giusto dover non preterisco. (con una riverenza)

Giuseppina, di brio la casa è piena.

Ho accordato a ballar sapete chi?

Se vel dirò, lo crederete appena.

Felicita anderà fuori di qui

Per prima ballerina.

GIUS.

Ove?

RIG.

A Pistoia.

GIUS.

Mi burlate, signor?

RIG.

Ella è così.

GIUS.

E quanto hanno esibito a questa gioja?

RIG.

Son cinquanta zecchini, e ben pagati,

E la metà non me la leva il boia. (mostra danaro)

GIUS.

Convien essere al mondo fortunati;

Ma Felicita poi cosa farà?

RIG.

Farà i soliti passi impasticciati.

Per voi, che avete dell'abilità,

Vi è un incerto miglior. (Vo' un po' vedere

Se il signor Conte ci ha difficoltà). (da sé)

GIUS.

Qual incontro saria? si può sapere?

RIG.

A Peterburgo coi viaggi pagati,

Mille e duecento rubli, ed il quartiere.

GIUS.

Cosa son questi rubli?

RIG.

Equiparati

Son quasi ai nostri scudi fiorentini.

GIUS.

Capperi! i passi non sarian gettati.

CON.

Tosto in sentire a nominar quattrini

Vi è la brama venuta, ed è smarrito

L'odio contro al mestier dei ballerini. (a Giuseppina)

GIUS.

Io, signore, non ho quest'appetito.

Se col vostro bel cor mi consigliate,

Io pronta sono a ricusar l'invito.

RIG.

Come! senza di me voi v'impegnate?

Chi è padron di dispor della scolara?

Affé di bacco, mi scandolizzate.

Se una buona fortuna si prepara

Per voi, per me, s'ha da lasciar fuggire?

Questa bella pazzia dove s'impara?

Non vi lasciate dalla bocca uscire

Tai sconcie cose a danno mio soltanto,

Suggerite da chi non lo vo' dire.

CON.

Maestro mio, non vi avanzate tanto,

Ch'io vi capisco, e vi farò pentito.

Nato son cavaliere, e tal mi vanto.

La Giuseppina trovasi al partito

Di bilanciar per me la sua fortuna,

E lasciar per Firenze il Moscovito.

Io non avrò difficoltade alcuna

A pagar mille scudi acciò non vada.

RIG.

(Abbiam preso il merlotto in buona luna). (piano a Giuseppina)

Per dir la verità, questa è la strada;

Quando che si vuol bene a una fanciulla,

Colle parole non si tiene a bada.

Amor, protezion non conta nulla.

Ecco, se il signor Conte vi vuol bene:

Mille scudi gli sembrano una frulla.

GIUS.

Accettarli però non mi conviene.

RIG.

Perché?

GIUS.

Perché non so per qual ragione...

RIG.

Voi fate torto a un cavalier dabbene:

La pietà del suo core è la ragione

Che lo sprona all'onesto sagrifizio,

E non è mosso d'altra passione.

Accettate senz'altro il benefizio.

Dei mille scudi la metà mi tocca,

E i cinquecento mi faran servizio.

CON.

No, no, la destra mia non è sì sciocca

Di gettar il danaro a chi nol merta.

Maestro mio, spazzatevi la bocca.

Per Giuseppina la mia casa è aperta.

Voi da me non sperate un sol quattrino;

Già la vostra malizia ho discoperta:

Siete delle scolare un aguzzino. (via)

GIUS.

Ecco, per cagion vostra avrò perduta

L'avventura miglior del mio destino.

RIG.

Ho piacere ancor io, se il ciel v'aiuta;

Ma che aiuti voi sola, e a me nïente,

Per i miei denti è un masticar cicuta.

Perdo il guadagno, e poi probabilmente

Perderò voi, ché il cavalier pietoso

Credo non sarà poi tanto innocente.

E ho da tacer? se per amor geloso

Fossi soltanto, metterei giudizio,

E un rival soffrirei ch'è generoso.

Ma la rabbia mi sale all'occipizio,

Perché oltre all'affetto che vi porto,

Sono, se mi lasciate, in precipizio. (via)

GIUS.

Dica quel che sa dir, si lagna a torto.

Questa non è la via di far guadagno;

Chi nel torbido pesca, è malaccorto.

Il mio maestro è un avoltor grifagno,

Egli tende le reti alle scolare,

E noi siamo le mosche in bocca al ragno. (via)


 

 

 

ATTO TERZO

 

 

 

SCENA PRIMA

 

Don  Fabrizio e Felicita

 

FABR.

Ma perché mai cotanta ritrosia?

Siate più franca, siate spiritosa.

FELIC.

Che pretende da me vossignoria?

FABR.

Da voi cosa pretendo? è curiosa!

Fermata meco per ballar non siete?

FELIC.

Chi v'ha detto, signor, sì fatta cosa?

FABR.

Non saperlo mostrate, o nol sapete?

Ecco qui la scrittura, ed ho pagato

Il danaro di già, come vedete.

FELIC.

Povero galantuom, siete gabbato.

FABR.

Perché?

FELIC.

Perché davver, sull'onor mio,

A ballare finor non ho imparato.

FABR.

Voi chi siete?

FELIC.

Felicita son io.

FABR.

Quella appunto, a cui fatta ho la scrittura.

Eh, vi tratterrà qui qualche desio.

FELIC.

Questa è la verità sincera e pura:

Non so ballar, non me n'importa un fico.

Anzi ne son contraria per natura.

Se venissi con voi, chiaro vel dico,

Fatevi conto di vedere un ceppo,

Buono soltanto da recare intrico.

Bellissima davvero! Il mondo è zeppo

Di ballerini, e intorno a me venite?

Né anche se foste nato sur un greppo.

FABR.

Resto stordito a quello che mi dite;

Se il maestro di ballo m'ha ingannato,

O stracciamo la scritta, o facciam lite,

E mi renda il danaro anticipato;

Ma ancor io credo che scherziate meco,

Per piacer di vedermi sconsolato.

FELIC.

Voi mi vedrete, se non siete cieco;

Peggio vedrete di quel che vi ho detto.

FABR.

Perché dunque il maestro vi tien seco?

FELIC.

Abborrisco un mestiere maledetto;

Abborrisco il ballar, come il demonio;

Ed ei vuole ch'io balli a mio dispetto,

Perché fa di scolare un mercimonio;

E per aver di sue fatiche il prezzo,

Non gli preme ingannar Tizio o Sempronio.

FABR.

E un buon sensale, a contrattare avvezzo

Musici e ballerini, assicurato

Mi ha, che voi siete un mobile di prezzo.

FELIC.

Eccomi qui, signore mio garbato:

Quel mobile ch'io son, voi lo vedete.

Pare a voi ch'egli merti esser sprezzato?

Levatemi dal ballo, se potete;

Per il resto son pronta onestamente,

Tutto fare per voi quel che volete.

FABR.

Dite la verità sinceramente:

Abborrite il teatro in generale,

O vi spiace il ballar singolarmente?

FELIC.

Spiacemi quella cosa ch'io fo male;

Se sapessi ballare, ballerei;

Ché anzi i' son del teatro parziale.

FABR.

Voi non siete discara agli occhi miei,

E se sperassi di esser bene accetto,

Quel ch'ho nel cuore vi confiderei.

FELIC.

Sentir adesso in verità mi aspetto,

Che piantar mi vogliate la carota

Di arder per me d'un improvviso affetto.

Non mi crediate cotanto idïota;

Se vi piaccion le celie e i ghiribizzi,

Ho anch'io la lingua che al bisogno arruota,

E non occorre che nessun m'attizzi:

Noi faremo a giuocare all'altalena,

A chi sa meglio immaginar bischizzi.

FABR.

Ma perché mai v'inquietate? Appena

Principiato ho a parlare, immantinente

D'esser beffata vi mettete in pena;

Di parlarvi d'amor non ebbi in mente.

Per un'altra ragion voi mi piacete.

FELIC.

Come sarebbe a dir? (in collera)

FABR.

Placidamente. (acchetandola)

Impresario son io, come sapete,

D'opera musical; ma una commedia

Recitare in Pistoia ancor vedrete.

E se il mestiere del ballar v'attedia,

Se vi aggrada venir per recitante,

Certo non morirete dall'inedia.

Instruir vi farò da un commediante,

E lo spirito vostro e l'esercizio

Vi farà prestamente andar innante.

FELIC.

Per dir la verità, codesto uffizio

Non mi dispiacerebbe; ma ho timore

Di dovermi pentir del sagrifizio.

So che i comici son gente d'onore,

So che fanno un mestier che al mondo è grato,

So che vivon taluni con splendore;

Ma dopo che il mestier s'è rivoltato,

Dopo che un nuovo stil fu posto in scena,

V'è chi si lagna del mestier cangiato.

Ora un garzon sa compitare appena,

Studia una parte, ed esaltar si sente,

E l'applaude l'udienza a voce piena.

Benché dell'arte non ne sa niente,

Se lo prende un poeta a confettare,

Presto mettesi a far l'impertinente.

E chi onor si faria, non sel può fare

Per causa del poeta parzïale,

Che solo chi gli par vuol far spiccare.

Credere si potrebbe un uom venale,

Che distinguesse chi regala più;

Ma i comici non cascan di tal male.

La comica il mio genio ognora fu;

Reciterò, ma solo all'improvviso,

Dove il merito spicca, e la virtù.

FABR.

La medesma ragion anch'io ravviso.

Sono i geni però confusi e vari,

E il giudizio fra lor pende indeciso.

Sono i comici buoni al mondo rari,

Aiutan molto le opere studiate;

Ma il mal si è, che costano danari.

Se ai comici venisser regalate,

Quantunque non facessero fortuna,

Alle stelle da lor sarian portate.

Ma noi qui stiamo a bastonar la luna.

Se di venir vi risolvete, andiamo,

Io non ci avrò difficoltade alcuna.

FELIC.

Al maestro è dover che lo diciamo.

FABR.

Sembravi ch'egli merti un complimento?

Dispensare per or ce ne possiamo.

Glielo diremo poi. Già i scudi cento

Lasciogli nelle man per non piatire,

E a conto andran del vostro assegnamento.

FELIC.

Anche per questo ne dovrei patire?

Veggo la vostra offerta interessata;

Non me ne fido, e non ci vo' venire.

FABR.

Il maestro mariuòl me l'ha accoccata,

E quel tristo sensal...

 

 

 

SCENA SECONDA

 

Ridolfo e detto.

 

RID.

Di chi parlate?

FABR.

Di voi, e della vostra bricconata.

RID.

Ehi, de' ghangheri fuori non andate.

A' monelli si dicon tai rampogne:

Spirito di paura che impazzate.

FABR.

Uno che mercanzia fa di menzogne,

Lo stimo tanto, quanto un animale

Ch'è destinato a scaricar le fogne.

RID.

Non ho voglia stamane di dir male:

Cosa ho fatt'io, che in collera vi mette?

FABR.

Una truffa patente e criminale.

La ballerina che mi si promette,

Non sa, non vuol ballar, non vuol venire;

Ed un simile inganno si commette?

RID.

Se non rido di cor, possa morire.

Parlaste con Felicita?

FABR.

Parlai,

E mi ha fato alla prima intirizzire;

Disse che il ballo non apprese mai,

Che sarà come un ceppo; orsù, alle corte,

I cento scudi che gli anticipai.

RID.

Oh quanto mal son le fanciulle accorte!

Quanto gli uomini sono (tali e quali)

Baggiani in vita, e babbuassi in morte!

Felicita ha gli umori matricali:

Quando sente propor la dipartenza,

Le vengono d'intorno cento mali.

Vi ha burlato, signore, in coscïenza;

Ella vi ha detto non saper ballare,

Ed il ballo lo sa per eccellenza:

Se la vedrete, vi farà incantare.

Ha un piede svelto come una cervetta,

Ed ha una gamba che fa innamorare.

Ha il ginocchio disteso; e non difetta

Né di ciccia soverchia, né di poca,

Mostrando in ciò proporzion perfetta.

Il collo non ha lungo come un'oca,

Ma ritondetto, e se vedeste come

L'occhio e la testa, quando balla, giuoca.

Sono vezzose in lei fino le chiome;

Vi assicuro non passano due anni,

Che risuona per tutto il di lei nome.

E i Francesi, e i Spagnuoli, ed i Britanni

Per averla daran mille zecchini,

E tutto il mondo metterà in affanni.

E voi, che si può dir per sei quattrini

L'avete avuta, sentirete il chiasso

Che ne faranno i vostri cittadini.

Io vi consiglio non muovere un passo.

Se il maestro lo sa che vi dolete,

Ve la ritoglie, e poi vi manda a spasso.

Conducetela vosco, se volete;

Quando il lungo Arno le sarà lontano,

Ridere e saltellar voi la vedrete.

Ma fin che state qui, sperate invano

Ch'ella si mova; è femmina cocciuta,

Come suol dirsi in termine romano.

FABR.

Dunque cosa ho da far?

RID.

Senza disputa,

Che Felicita salga nel calesso,

E menatela via così alla muta.

FABR.

Sì, lo farò. Son più contento, adesso

Che mi avete di tanto assicurato.

Perdono in lei l'ostinazion del sesso. (via)

RID.

Povero galantuom, sarà imbrogliato.

Ma è più imbrogliato maestro Rigadone,

E alfine gliel'ha data a buon mercato.

Oggi le brave hanno pretensione

Di trecento zecchini, o quattrocento,

E metton tutto il mondo in confusione.

Da ridere mi vien, qualora sento

All'impresario dir la ballerina:

Vo' la carrozza, vo' l'appartamento.

Non si ricorda più la poverina,

Di quando andava senza scarpe in piede

Dal maestro di ballo ogni mattina;

E perché un poco di danar si vede,

E le fan le moine i spasimanti,

Cambiata aver condizïon si crede.

Ecco madama. Oh, ha pur dei grilli tanti

Questa ancora nel capo! Ella vorria

Veder per essa delirar gli amanti.

 

 

 

SCENA TERZA

 

Madama Sciormand e detto.

 

MAD.

Voi siete tratto tratto in casa mia,

E mai che vi degnaste per creanza

Dirmi: buongiorno di vossignoria.

Dove imparaste così fatta usanza?

RID.

Quando vi vedo, faccio il mio dovere.

MAD.

Mi si viene a trovar alla mia stanza.

RID.

Posso in nulla servirvi?

MAD.

Io vo' sapere

Tutti gli affari del signor fratello;

E le scritture le vo' anch'io vedere.

Se prende uno scolar, voglio di quello

Essere intesa, e se a ballar lo manda,

Vo' veder se il contratto è buono e bello.

È ver che l'uomo è quello che comanda;

Ma nelle cose sue non può fallire,

Se consiglio alla femmina domanda.

RID.

Veramente per detto intesi dire,

Che consiglio di donna allora è buono,

Quando senza pensar lo lascia uscire.

MAD.

Queste contro il mio sesso ingiurie sono;

La donna è creatura più perfetta;

E il ciel le diè di sottigliezza il dono.

Io poi, per dirla, sono una donnetta

Ch'oltre l'accorta femminil natura,

I miglior studi d'apparar si alletta.

So che in numero, in peso ed in misura

Tutte consiston le create cose;

So che il male finisce, e il ben non dura;

So degli effetti le cagioni ascose;

So ch'ogni dolce suol produr l'amaro,

E senza spine non si trovan rose.

Ma quel che di saper mi saria caro

Ancor non so: vorrei saper la gioia

Di due cori che s'amano del paro.

Questo viver così mi viene a noia.

Da un amante sospira il genio mio

Qualche onesto piacer, prima ch'io moia.

Oltre il sapere, ho un po' di dote anch'io;

Allo sposo darei, se non sdegnasse,

Trecento scudi che lasciommi un zio.

Uomo non crederei che mi sprezzasse,

Ma non lice a donzella andar in traccia;

Qualchedun ci vorria che mel trovasse.

RID.

Se non credessi d'acquistar la taccia

Di quel mestier che si disprezza, e giova,

Vorrei andar per amor vostro a caccia.

MAD.

Su via, Ridolfo, fatene la pruova.

I fatti nostri chi li ha da sapere?

Donna che taccia al mondo non si trova?

RID.

Ditemi: chi vorreste?

MAD.

Un cavaliere.

RID.

E se fosse un mercante?

MAD.

E perché no?

RID.

E se fosse per caso un botteghiere?

MAD.

In ogni guisa maritarmi io vo'.

Basta sia ricco, e mi mantenga bene.

RID.

E se fosse vecchietto?

MAD.

Oh questo no!

RID.

Qualche cosa di mal soffrir conviene.

MAD.

Soffrirò tutto, fuor della vecchiezza.

RID.

Se uno spiantato per le man vi viene?

MAD.

Basta ch'abbia buon garbo e gentilezza;

Il ciel provvederà.

RID.

Signora mia,

Vorrei dir, per ischerzo, una sciocchezza.

Se un marito ella vuol qualunque sia,

Di questo galantuom suo servitore

Le piacerebbe la fisonomia?

MAD.

Se potessi sperar nel vostro amore...

RID.

Circa l'amor non vi sarà che dire,

Ma la ricchezza mia sta nel buon core.

MAD.

Tutti i beni del mondo han da finire:

Dice il proverbio, chi è contento gode:

Nascono le amarezze dal desire.

Virtuosa umiltà merita lode;

Chi non abbonda di ricchezze in casa,

Timor non ha d'insidïosa frode.

Chi le delizie di Cupido annasa,

D'altro vano piacer l'odor non fiuta;

Il nettare nel seno amor travasa.

Ridolfo, questo cor non vi rifiuta;

Non vi affanni il pensier dell'avvenire;

Cuor contento, suol dirsi, il ciel l'aiuta.

RID.

Corpo di bacco! i' non mi vo' pentire:

Ecco la mano.

MAD.

Prendovi in parola;

A mio fratello non lo state a dire.

RID.

Rigadone, che badi alla sua scuola:

Madama non dipende dal fratello;

Vuol maritarsi, povera figliuola.

Donna di garbo, donna di cervello,

Non le preme un signor ricco sfondato,

Vuol di Ridolfo il suo coruccio bello. (via)

MAD.

Finalmente un amante ho ritrovato;

E posso dir che ritrovai marito,

Se di buon cuore la parola ha dato.

È vero che il meschino è rifinito;

Ma di dote e corredo io non abbondo,

E niente con niente fa il partito.

Né per questa ragion io mi confondo:

Mio fratello mi stima, e mi vuol bene;

E alla sua mensa non ci manca un fondo.

Chi è questa vecchia, che al baston s'attiene?

Ha una giovane seco. Facilmente

Qualche nuova scolara a noi sen viene.

 

 

 

SCENA QUARTA

 

Lucrezia, Rosina e detta.

 

LUCR.

Serva sua, mia signora.

ROS.

Riverente.

MAD.

Vi saluto, madonna, addio, ragazza.

LUCR.

(Che saluto è cotesto impertinente!) (a Rosina)

ROS.

(Sarà qualche scolara). (a Lucrezia)

LUCR.

(O qualche pazza). (a Rosina)

MAD.

Chiedete forse il mio signor fratello?

ROS.

(Suora ell'è del maestro). (a Lucrezia)

LUCR.

(Che pupazza!)

ROS.

signora, cerchiamo appunto quello.

MAD.

Siete voi ballerina?

ROS.

Principiante.

MAD.

Imparerete, se avrete cervello.

LUCR.

(Oh, mi vien la saetta!) (da sé)

ROS.

Imparan tante,

Imparerò io pure. (con ardire)

MAD.

Alla favella

Sembrami che voi siate un po' ignorante.

LUCR.

(Che ti possa venire la rovella!)

ROS.

Perché, signora mia?

MAD.

Perché non parla

Con sì fatta arroganza una zitella.

LUCR.

Presto, Rosina, vanne ad inchinarla;

Favorisca la mano, gentildonna, (ironicamente)

Che la figliuola mia verrà a baciarla.

MAD.

Chi vi pensate corbellar, madonna?

In questa casa sono io signora.

Non soffro insulti da un'ignobil donna.

Ogni scolara mi rispetta e onora;

E chi la grazia del maestro brama,

La mia protezion soltanto implora.

Se farete così, meschina e grama

Vostra figlia sarà.

ROS.

Signora mia...

MAD.

Che signora, signora? io son madama. (via)

LUCR.

Che ti accarezzi il fistolo! Andiam via.

ROS.

andiamo, a costo di precipitarmi.

Non la posso soffrir quell'albagia.

LUCR.

Aspetta. Col maestro i' vo' sfogarmi.

S'egli le parti tien della sorella,

Non ci penso una spilla a licenziarmi. (via)

ROS.

Maledetta superbia! Oh, questa è bella!

Nel cielo delle donne è persuasa

D'esser madama la Diana stella!

 

 

 

SCENA QUINTA

 

Carlino e detta.

 

CARL.

Oh Rosina!

ROS.

Oh Carlino!

CARL.

In questa casa?

ROS.

Mia madre col maestro mi ha accordata;

Ma or di restarvi mi son dissuasa.

CARL.

Come! lo fai per me, Rosina ingrata?

Sai che ti voglio bene, ed or che vedi

Ch'io son qui teco, ti sei disgustata?

ROS.

Ci starei volentier più che non credi;

Ma del maestro alla sorella ardita

Io non consento di gettarmi ai piedi.

CARL.

Lasciala dir, non le badar, mia vita:

Entra per poco in questa soglia amara,

Ché presto forse troverem l'uscita,

Se il cielo una fortuna mi prepara.

Se al servizio mi chiama una corona,

Meco verrà la mia Rosina cara.

ROS.

Ma per teco ballar sarò poi buona?

CARL.

Quando ci sarò io, non dubitare.

Di quel poco ch'avrò, sarai padrona.

ROS.

Il mio poter non lascerò di fare

Per riuscir meglio, se non bene bene.

CARL.

Ma sopra tutto tu mi devi amare.

ROS.

Vattene tosto, che la mamma viene:

Con ballerini non vuol ch'io favelli.

CARL.

Io so il perché. Perché il regal non viene.

Ma poscia i ballerini sono quelli

Che le compagne portano alle stelle;

Io farò tutto per quegli occhi belli. (via)

ROS.

Non spunta ancora dalla bianca pelle

Di Carlino la barba; e so che è bravo,

E da lui posso procacciar covelle.

 

 

 

SCENA SESTA

 

Lucrezia e detta.

 

LUCR.

Della sorella il maestruccio è schiavo:

Vuol che alla principessa ognun s'inchini.

Andiamo, che lo stomaco m'aggravo.

ROS.

Oh mamma mia, non abbiamo quattrini;

Statevi zitta, siate benedetta:

Finalmente non storpiano gli inchini.

Lasciate che a ballare mi rimetta,

Tanto ch'io possa escir la prima volta;

Se madama vuol dir, non le diam retta.

Cozzar coi muriccioli, è cosa stolta:

Facciam nostro interesse, mamma cara,

E a me lasciate dimenar la polta.

LUCR.

La tavola ho veduto si prepara:

Andiam dunque cogli altri in compagnia.

Oh, la necessità gran cose impara! (via)

ROS.

Il motivo non sa la madre mia,

Che mi ha fatto restar. Son giovinetta,

Il gran mondo non so che cosa sia;

Ma quando occorre, sono anch'io furbetta. (via)

 

 

ATTO QUARTO

 

 

 

SCENA PRIMA

 

Madama e Tognino.

 

MAD.

Ehi Tognino.

TOGN.

Madama.

MAD.

Immantinente

Vammi a cercar Ridolfo, e fa che tosto

Venga da me.

TOGN.

Sì presto?...

MAD.

Impertinente,

Che vorresti tu dire?

TOGN.

Mi ho riposto

Le parole nel gozzo.

MAD.

Parla, via.

TOGN.

Volea dir, che va in tavola l'arrosto.

MAD.

A me che preme?

TOGN.

Se a vossignoria

Non importa il mangiar, sia con rispetto,

È una stoccata per la gola mia.

Quando ritorno, ritrovar mi aspetto

Divorati in cucina infino gli ossi:

Pare che lo facciate per dispetto. (via)

MAD.

Gran mala cosa, che da sé non puossi

Far sue faccende senza di costoro,

Che han propriamente pel bastone i dossi,

E vonno esser pagati a peso d'oro;

E se tarda il salario, o la derrata,

I monellacci pagansi da loro.

Mi ha cotesto birbone inquïetata;

Bramo di riveder Ridolfo mio,

E temo sempre d'esser corbellata.

Non ho per questo di mangiar desio;

Mangerò, quando avrò vicino al desco,

Se la sorte lo vuol, lo sposo anch'io.

Il mio germano in verità sta fresco,

Se crede che per tutti i giorni miei

Voglia star sola a ridere in cagnesco.

Che venisse Ridolfo i' bramerei:

Frattanto che alla tavola sen stanno,

Il tempo e il loco stabilir potrei.

Filippino e Rosalba cosa fanno

Soli colà dagli altri dipartiti?

Parleranno d'amore, e non m'inganno.

Pare che sian rimasti intimoriti,

Perch'io li ho discoperti. In mia presenza

Esser non pon soverchiamente arditi.

Vengono a questa volta; indifferenza

Mostrerò seco loro, e vo' vedere

Se usan meco rispetto, o escandescenza.

 

 

 

SCENA SECONDA

 

Filippino, Rosalba, e detta.

 

FILIP.

(Se il fine nostro premevi ottenere,

Adularla conviene). (piano a Rosalba)

ROSAL.

(È poco male,

Se amica nostra la possiamo avere). (a Filippino)

FILIP.

Madama, che in bontà non ha l'eguale,

Da voi venghiamo a domandarvi aiuto.

ROSAL.

Io so la vostra protezion che vale.

MAD.

Esponete l'istanza.

FILIP.

Un dardo acuto

Per Rosalba m'impresse amor nel seno.

MAD.

(Oh vuol da tutti il tristarel tributo!) (da sé)

ROSAL.

Per Filippino anch'io mi struggo e peno;

Come la cera mi consumo al fuoco.

MAD.

(Arde il mio cor, del vostro cor non meno).

FILIP.

La padrona voi siete in questo loco.

ROSAL.

I scolar del fratel son servi vostri.

MAD.

(Mi fan tai detti insuperbir non poco).

FILIP.

Eccomi al vostro piè...

MAD.

Non vo' si prostri

Uomo dinanzi a me; non son sì altera;

Basta che l'umiltà del cor si mostri.

Quel che in me si confida, invan non spera.

Che ho da fare per voi?

FILIP.

Pronuba dea

Stringere i nostri cor.

ROSAL.

Ma innanzi sera.

MAD.

Piacemi inver la spiritosa idea:

Darmi, perch'io vi faccia la mezzana,

Lo specifico onor di Citerea.

FILIP.

Venni grazia a impetrar dalla sovrana.

ROSAL.

Grazia senza di voi serbar non lice.

MAD.

Orsù, mi avrete generosa e umana.

Un no il germano ad un mio sì non dice:

Seguitate ad amarvi, io pur ne godo,

E sarà il vostro cor per me felice.

Di far le nozze troverassi il modo;

Se 'l negasse il maestro, io vel prometto,

Preparate le destre al dolce nodo.

Ma sappiate ch'io pure ardo d'affetto;

E altri sponsali tollerar non voglio

Prima delle mie nozze in questo tetto.

E sia questa giustizia, oppure orgoglio,

Se la Venere son dei vostri amori,

Così comanda di Citerea il soglio. (via)

FILIP.

Bella, bella davvero. I nuovi ardori

Quando son nati di madama in seno?

ROSAL.

E soffrire dovranno i nostri cuori!

FILIP.

Stiasi veder per qualche giorno almeno.

ROSAL.

Non v'incresce aspettar? chiaro si vede

Che non penate, come dentro io peno.

FILIP.

Ma se il maestro dell'amor s'avvede,

E la germana non abbiam seconda,

Dirà che al patto noi manchiam di fede.

E quel cervel che di rigori abbonda,

Troverà il modo di gettare il sasso,

E di nasconder la maligna fionda.

ROSAL.

Anzi ch'ei possa giungere a tal passo,

Se i cori unisce il marital legame,

Non lo scioglie monsieur, né satanasso.

FILIP.

Soddisfare saprò le vostre brame...

Chi viene?

ROSAL.

Giuseppina, anch'essa credo

Abbia nel sen lo stesso bulicame.

 

 

 

SCENA TERZA

 

Giuseppina e detti.

 

GIUS.

Amici, in compagnia spesso vi vedo;

Che sì che amore, il tristarel, v'impania?

ROSAL.

Noi siam due quaglie nello stesso spiedo.

FILIP.

Ambi ci ha colti l'amorosa smania.

Amor pietoso ci promette il frutto;

Ma temo vi si sparga la zizzania.

GIUS.

E voi studiate prevenire il lutto:

Molte cose non fatte han suoi perigli;

Ma quando è fatto, si rimedia a tutto.

Finalmente non siam nepoti o figli

Di costui che ci tiene al giogo stretti,

E possiam scapolar dai fieri artigli.

ROSAL.

Sentite? (a Filippino)

FILIP.

Superar voglio i rispetti.

Andiamo uniti a meditare il modo.

Liberi siamo, e non a lui soggetti. (via)

ROSAL.

Così mi piace. Giuseppina, io godo.

Non vedo l'ora di saper che sia

Questo dolce d'amor perpetuo nodo. (via)

GIUS.

È diversa da lor la sorte mia;

Essi son nati per natura eguali:

Io mi lusingo entrare in signoria.

Il Conte è un cavalier de' principali,

E i segni che mi d'affetto vero,

Sono segni patenti e modernali.

Alla prima, per dirla, avea in pensiero

Di tirare un po' d'acqua al mio molino

Come fan tante di questo mestiero,

E poi scrivere il nome al tavolino

Nella lista di tanti protettori,

Scordati affatto dal mio cervellino.

Ma capisco che i suoi non sono amori

Passeggieri, volanti, e da dozzina;

Ma mi fanno sperar cose maggiori.

Quello che disse a me questa mattina,

Quando finsi per lui lasciar la paga

Di mille rubli, fa veder che inclina

A starci meco, e che di me si appaga:

S'ella è così, lo vo' provar di botto,

Finché calda nel seno è ancor la piaga.

Eccolo, che ver me sen vien di trotto;

Nell'orecchie l'avea più che nel core;

Ma amor col tempo pagherà lo scotto.

 

 

 

SCENA QUARTA

 

Il Conte e detta.

 

CON.

Eccola qui; non è mendace amore:

Mi disse amor la troverei soletta.

GIUS.

Lo starmi sola è il mio piacer maggiore.

CON.

Dunque la compagnia non vi diletta?

GIUS.

Sì, ma non tutte.

CON.

La riserva approvo:

Sempre non dassi compagnia perfetta.

Or, per esempio, che con voi mi trovo,

Piacerebbevi meglio di esser sola?

GIUS.

Per me da voi questo parlar vien nuovo.

Merito forse, povera figliola,

Esser da voi mortificata a segno

Che mi tolga il respiro e la parola?

CON.

No, Giuseppina: non diss'io per sdegno;

Godo sentirmi replicar sovente

Che vi son caro, e non d'amore indegno.

Di questa mane mi ritorna in mente

Il sagrifizio che per me faceste:

Son cavaliere, e un cavalier non mente.

Deonsi rimeritar le opere oneste:

Mille rubli per me lasciar vi piacque?

Mille doppie di Spagna, ecco, son queste.

GIUS.

Oimè, signor, qual fantasia vi nacque

Sopra di me? Di povera donzella

A qual tristo pensier l'onor soggiacque?

Ma, mi direte voi, non sei tu quella

Che mi chiese stamane arditamente

Qualche piccolo dono in sua favella?

È vero, è vero, ed il mio cor risente

D'amara pena e di vergogna il foco:

Perdon vi chiede, e dell'ardir si pente;

Ma alla fin fine i' non chiedea che poco,

E il picciol don d'un cavalier d'onore

A sinistro desir non apre il loco.

Mille doppie di Spagna è tal favore,

Che innocente non sembra, ed in pensarlo

Si gela il sangue, e mi s'aggruppa al core.

Franca, signor, senza rimorsi io parlo:

Faccio questo mestier per mia sfortuna;

Ma son chi sono, e con onor vo' farlo.

Se nell'animo vostro il genio aduna

Qualche tristo pensier, vel dico aperto,

Andate pur senza speranza alcuna.

CON.

Quanto accresce quest'ira il vostro merto!

Mille doppie di Spagna è tal rifiuto,

Che vi guadagna fra le donne il serto.

Ma non pertanto il mio pensier non muto;

Fu dell'onor, non dell'amore un pegno,

Questo al merito vostro umil tributo.

E se il basso metal vi move a sdegno,

Senza premio virtù perciò non vada;

La mia stima per voi sale in impegno.

Ditelo in faccia mia, che più vi aggrada?

GIUS.

Chi un infelice consolar aspira,

Sa da se stesso ritrovar la strada.

CON.

(Ah sì, lo vedo, le mie nozze ha in mira.

Chi le porge il consiglio, amore od arte?) (da sé)

GIUS.

(Gli scotta il colpo, e per amor sospira). (da sé)

CON.

Bramereste il ballar lasciar da parte?

GIUS.

Abborrisco un mestier che per il mondo

Tristi menzogne di chi l'usa ha sparte.

CON.

Vi farebbe uno sposo il cor giocondo?

GIUS.

Uno sposo, signor? Tutti gli sposi

Non hanno in cor della virtude il fondo.

CON.

Come spiriti in voi sì generosi

La bell'alma nutrì?

GIUS.

Natura istessa

Ha i semi in tutti di virtude ascosi.

Donna volgar, dalle sventure oppressa,

Per ciò non perde di ragione il lume,

Né dalla sorte l'anima è depressa.

L'onestà, la prudenza, il buon costume

Solo non è dei nobili retaggio;

Parte siam tutti dello stesso nume.

Tra la folla del volgo, un cuor ch'è saggio

Si distingue dagli altri, e contro il fato

Sa, se il fato l'insulta, aver coraggio.

CON.

(Ah, un nobil cor di tanti pregi ornato

Chi amar non puote, e posseder non chera?) (da sé)

GIUS.

(Deh non sia meco il mio destino ingrato!) (da sé)

CON.

Donna gentil, parlatemi sincera:

Il vostro cor, che nel mio cor penetra,

Sopra dell'amor mio che cosa spera?

GIUS.

Spero, signor, mercé di lui che all'etra,

E alla terra, ed al mar la legge impone,

Ch'ogni tristo pensier da voi s'arretra.

Spero che di fortuna al paragone

L'onestà messa, e il femminil decoro,

Degna sia della vostra compassione.

Spero offerto da voi siami il tesoro

Dell'amor, della fede... oimè, fin dove

I pensier vanno a contrastar fra loro!

Un: va, mi dice, a delirare altrove;

L'altro mi ferma nel desire ardito;

E dal ciel la speranza in sen mi piove.

CON.

Il desir vostro senza sdegno ho udito.

Ogni disuguaglianza amore uguaglia:

Voi meritate un nobile partito.

Perché vediate se di voi mi caglia,

Ecco pronta la destra.

GIUS.

Ah no, signore,

L'improvviso splendor sovente abbaglia.

Tempo donate al conceputo ardore;

Esaminate se di voi son degna;

Tardi si pente chi ha ceduto il cuore.

Se l'amor vostro a mio favor s'impegna,

Fatelo sì che non risenta il grado

Il peso un della catena indegna.

Quando ha varcato dell'amore il guado

Il nocchier stanco sull'opposto lido,

Il goduto piacer canta di rado.

No, non v'inganni il seduttor Cupido.

Vi do tempo a pensar; di un primo foco,

Perdonate, signore, io non mi fido.

Vi lascio sol, ritornerò fra poco;

E dirò, se l'amor persiste e dura,

Che mi amate davvero, e non da giuoco. (via)

CON.

Il giusto ciel che ha le bell'alme in cura,

Per me questa riserbi; io non mi pento:

Vince la sua virtù sangue e natura;

D'una donnadegna io son contento.(via)


 

 

 


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