Carlo Goldoni
Torquato Tasso

ATTO PRIMO

SCENA TERZA

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SCENA TERZA

 

Targa e detti.

 

TAR.

Signor.

TOR.

Che cosa c'è?

TAR.

Sua Altezza vi domanda.

TOR.

Sì, v'andrò quanto prima.

GHE.

Ite pur, s'ei comanda.

Per me non v'arrestate; v'attenderò curioso

Di saper che ha voluto.

TOR.

(Eccolo qui il noioso.

Vuol saper tutto).

TAR.

Andiamo, che sua Altezza vi aspetta.

TOR.

Andrò.

TAR.

Tosto vi vuole.

TOR.

Anderò, non ho fretta.

Ah maledetto il punto, che in Corte io son venuto!

Venero il mio signore, ma a lui non mi ho venduto.

Giovin di quattro lustri venni invitato in Corte;

Sperai co' miei sudori fabbricar la mia sorte.

Lo studio e la fatica riposo unqua non diemme,

Ott'anni ho consumati nella Gerusalemme;

E il mio signore, a cui l'opra sacrar si vede,

Qual diede a' miei sudori generosa mercede?

Misero me! per lui faticato ho l'ingegno,

E d'un clemente sguardo appena mi fa degno.

Gli hanno i nemici miei avvelenato il cuore:

Mi tratta da nemico il Prence, il protettore.

Non so il perché... può darsi... ma no, non è capace.

Facile ascolta, e crede... Chetati, labbro audace.

Vadasi a lui... ma s'egli?... Egli è di me il padrone.

Se il nemico m'insulta? Mi saprà far ragione.

Qual ragion, qual ragione? Perfidi, l'ingannate...

Oimè! l'alma delira. Vado a lui: perdonate. (parte.)

 

 

 


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