Carlo Goldoni
Torquato Tasso

ATTO SECONDO

SCENA DECIMA

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SCENA DECIMA

 

Don Fazio, don Gherardo e detto.

 

GHE.

Venite pur, signore...

FAZ.

Schiavo allo sì Torquato.

GHE.

Vedrete un uomo grande. (a don Fazio.)

FAZ.

Voi m'avete frusciato. (a don Gherardo.)

TOR.

Signor, lo conoscete quel ch'è con voi venuto? (a don Fazio.)

FAZ.

Da che l'ho dato a balia, più non l'aggio veduto.

TOR.

Don Gherardo, da voi dunque si spera invano...

GHE.

Aspettate un momento. (a Torquato.) Siete napolitano? (a don Fazio.)

FAZ.

signore.

GHE.

Non pare: non siete caricato

Nelle parole vostre.

FAZ.

Aggio un poco viaggiato.

TOR.

Ehi! chi è di ? sediamo.

GHE.

Voglio seder vicino...

TOR.

Don Gherardo...

GHE.

Per grazia, soffritemi un pochino.

TOR.

(Di rompergli la faccia prurito ora mi viene.

Ah, si freni la collera. Non facciamo altre scene). (da sé, siedono.)

FAZ.

Tu sei, Torquato mio, in Sorriento nato;

In Napole t'aveva lo patre generato;

Sia per l'un, sia per l'autro, chiaro se bide e chiano,

Tasso, non v'è che dicere, tu sei napoletano.

GHE.

Dicon sia bergamasco...

TOR.

Chetatevi un momento.

FAZ.

Da Bergamo è lo patre, la matre da Sorriento.

In casa della mamma è nata chissa gioia;

Quella però se dice che sia la patria soia.

TOR.

Signor, sul nascer mio niuno finor pretese;

Merto non ho che vaglia a risvegliar contese.

Misero qual io sono, dagli Itali non spero

L'onor ch'ebbe da' Greci il combattuto Omero.

Anzi che s'abbia a dire paese sfortunato,

Temo, per mia cagione, quello dov'io son nato.

FAZ.

Sanno i Napoletani, sa tutta la cettate,

Che tu se' sfortunato, che vivi in povertate.

I parenti, li amici, el popolo t'invita

A passà, bene mio, chiù meglio la to vita.

GHE.

Ei non potrà venire, perch'è in Corte impegnato.

FAZ.

Uh, managgia la mamma porzì che t'ha figliato.

GHE.

Bravo; così lo stile di Napoli si sente.

TOR.

Voi meritate peggio. (a don Gherardo.)

GHE.

Non me n'offendo niente.

FAZ.

Vieni, Torquato mio, vieni alla città bella:

Non essere chiù ingrato all'amore di quella.

Sarai lo ben veduto da principi e marchesi,

Avrai delli carlini, avrai delli tornesi;

Songo per te venuto: vieni con meco...

GHE.

Io dubito

Ch'egli non ci verrà.

FAZ.

Pozza morì de subito. (a don Gherardo.)

GHE.

Obbligato, signore.

TOR.

Siete ancora contento? (a don Gherardo.)

GHE.

È de' Napolitani solito complimento.

FAZ.

Vedrai la gran cettate, ch'ogni cettate avanza,

De popolo ripiena, ripiena d'abbonnanza.

Abbonna de persone nobile e vertuose,

D'omeni letterati, di femmine graziose.

Tutti con braccia apierte stannote aspettanno.

Ciascun se sente dicere: quanno l'avrimmo, quanno?

Dimme, verrai tu meco?

GHE.

Non ci verrà, signore.

FAZ.

Che te venga lo canchero in mezzo dello core.

GHE.

Ecco un'altra finezza. (a Torquato.)

TOR.

Finezza a voi dovuta.

FAZ.

Pozza essere acciso. (a don Gherardo.)

GHE.

Sentite? mi saluta. (a Torquato.)

Fatemi grazia almeno di dirmi, in cortesia,

Giacché tanto mi onora, chi è vossignoria?

FAZ.

M'hai frusciato abbastanza: te pozzano pigliare

Tanti cancheri quante le arene dello mare.

Lo fulmene te pozza piglià tra capo e cuollo;

Te pozza soffocà le fiamme de Puzzuollo;

Pozza crepà con tutte porzì le imprecazioni

De tutti i mareiuoli, de tutti i lazaroni;

E quanno sarà ito in braccio a Belzebù,

Pozz'essere scannato un'atra vouta, e chiù. (parte.)

 

 

 


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