Carlo Goldoni
Torquato Tasso

ATTO QUINTO

SCENA OTTAVA

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SCENA OTTAVA

 

Camera di Torquato.

 

Torquato e don Gherardo.

 

GHE.

Mi rallegro vedervi dallo spedale uscito.

Ehi, dite, della testa siete poi ben guarito?

TOR.

Qual sia la mente mia dirvi non so, signore;

So che persiste ancora la malattia del cuore.

GHE.

Sono soggetti i dotti a malattie più strane;

Quanto studiano più, patiscono più rane.

Che hanno che far tra loro il cuore ed il cervello?

Lo stesso che han che fare le scarpe col cappello.

TOR.

Sapreste delle parti l'interna analogia,

Se fossevi piaciuto studiar l'anatomia.

L'origine de' nervi, che si dirama e unisce,

Dal cerebro principia, nel cerebro finisce;

E se una corda istessa la macchina circonda,

Ragion vuol che toccata quinci e quindi risponda.

Ciò che moto e senso ai nervi principali,

Chiamasi sugo nerveo, o spiriti animali;

E questi di mal sorte resi dall'uom pensoso,

Si fa l'alterazione nel genere nervoso.

Chi studia, chi s'affanna, chi vive in afflizione,

I spiriti consuma con ria distribuzione;

E nel canal de' nervi tal umor s'introduce,

Che stimola, che irrita, che alterazion produce,

Lassezza, convulsioni, tremor, paralisia,

Vapori ipocondriaci, apprensioni e pazzia;

Poiché gli uomini affetti da tal disgrazia orrenda,

Plus quam timenda timent, timent quae non timenda.

GHE.

Per me non sarò mai ipocondriaco ed egro;

Son stato e sarò sempre senza pensieri e allegro.

Ditemi com'è andata, che il Duca mio signore

Dallo spedal sì presto v'ha fatto venir fuore?

TOR.

Giunse testé da Roma Patrizio, amico mio,

Mandato per giovarmi dal ciel benigno e pio.

Venne a vedermi, e apprese ch'io non passava il segno:

Che m'avea chiuso il Prence non per pietà, per sdegno.

Mi confortò, mi disse che avea lettere tali

Da presentare al Duca de' nomi principali,

Che ben sperar poteva di carcere esser tratto;

Indi alle sue parole ecco rispose il fatto.

Per ordine del Prence mi si aprono le porte,

Però mi si destina per carcere la Corte;

Finché dal nuovo cenno di lui, che umile inchino,

In breve a me si faccia sapere il mio destino.

GHE.

Voi parlatebene, sì franco, e sì sensato,

Che fuori di cervello non par mai siate stato.

TOR.

Della manìa non giunsi, grazie al cielo, agli orrori.

Ascendono talvolta al cerebro i vapori;

Ma questi indi sedati dal tempo e da ragione,

Sgombran le nere larve de' spirti la regione,

Tornando l'intelletto più lucido e sereno,

Calmata la passione che m'agita nel seno.

GHE.

Or che far risolvete? che dice il vostro cuore?

Come anderà la cosa del discoperto amore?

TOR.

Ah barbaro, ah crudele! A suscitar tornate

Le smanie del mio cuore dalla ragion calmate. (irato.)

GHE.

Non parlo più. (mostrando timore.)

TOR.

Ma, oh cielo! dunque vagl'io sì poco?

Dunque dovrà ragione cedere al senso il loco?

No, no, parlate pure. Svegliate in me la face:

V'ascolterò costante, sì, soffrirollo in pace.

GHE.

Bravo, Torquato, bravo: così voi mi piacete;

Far veder che siet'uomo, che ragionevol siete.

Porta Eleonora, è vero, amor negli occhi suoi;

È bella la Marchesa, ma già non è per voi.

Il Principe l'adora, la vuol per sua consorte...

TOR.

Basta, ohimè!

GHE.

Cos'è stato?

TOR.

Voi mi date la morte.

GHE.

Non si guarisce mai, quando il cervello è ito.

TOR.

Stolto mi reputate? (con sdegno.)

GHE.

No, no, siete guarito.

 

 

 


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