Ah! noi donne
latine, nel generoso orgoglio
Troviamo ai
dolci affetti miserabile scoglio.
Massime
rigorose a noi la gloria insegna,
Destra di vil
straniero delle Romane è indegna.
Ma lo
stranier più vile, ma fin lo schiavo abietto,
Se cittadin
vien reso, merta qualche rispetto.
Terenzio, se
'l dichiara il suo signor liberto,
Principia fra
i Quiriti ad acquistarsi un merto;
E col bel
nome in fronte di cittadin Romano,
Può renderlo
virtute degno ancor di mia mano.
Rendasi per
lui dunque padre d'amor pietoso...
Ma libero,
chi certa mi fa ch'ei sia mio sposo?
Chi sa ch'ei
non risolva tornare ai patri lidi?
Passar dal
roman Tebro agli Africani infidi?
Chi sa che in
libertade tornando un dì l'ingrato,
Seco la greca
schiava non gli mirassi allato?
Poco sperar
poss'io dai tronchi detti oscuri
Di comico
poeta, sagaci e mal sicuri.
Questo
pensier m'affanna, questo timor mi svena,
Quest'è, che
a lui mi vieta di scioglier la catena.
Potrei
assicurarmi della sua fede in prima,
Ma donna che
parteggia coi servi, ha poca stima.
Nemmen dirgli
a me lice: ardo per te d'amore;
Troppo si
avvilirebbe d'una Romana il cuore.
Tutto quel
che far posso per confortar mie pene,
È 'l dir: Ti
voglio mio, ma voglioti in catene.
E almen, se a
me non lice goder gli affetti sui,
Quel ch'esser
mio non puote, non veggasi d'altrui.
Sia invidia,
sia giustizia, sia pertinace orgoglio,
Son donna, son
Romana; risolsi, e così voglio. (parte.)
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