LUC.
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Manometter lo
schiavo parmi il miglior consiglio;
Grato mi
rendo a Roma, si evita il mio periglio.
Potrei
costui, che forma finora il mio diletto,
Vittima, per
vendetta, ridur del mio dispetto,
Ché alfin
merita, e suda, e acquista fama invano
Chi può, per sua
sventura, spiacere ad un Romano;
E a noi de'
servi nostri in mano diè la sorte
L'arbitrio
della vita, l'arbitrio della morte...
Ma con costei
che or viene, dimessa nel sembiante,
Parlar vo' da
signore, nascondere l'amante.
E se giovar
non vale pietà col cuore ingrato,
Faccia il rigor
sue prove; rendalo umiliato.
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CRE.
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Eccomi a cenni tuoi.
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LUC.
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Dove finor Creusa?
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CRE.
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Al ricamo.
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LUC.
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Tu menti.
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CRE.
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Mentir per me non s'usa.
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LUC.
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Usar non lo
dovresti, ma sei Greca mendace.
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CRE.
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Al signor non rispondo.
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LUC.
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(Umiltà quanto piace!) (da sé.)
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CRE.
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(Dei della
patria mia, che anche sul Tebro ho in cuore,
Di Grecia a voi
s'aspetta difendere l'onore). (da sé.)
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LUC.
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Stavi al
ricamo intenta! E che facea 'l tuo vago
Teco, allor che
la tela passata era dall'ago?
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CRE.
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Signor, di chi favelli?
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LUC.
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Non
intendermi fingi:
Ma le pupille
abbassi, ma di rossor ti tingi.
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CRE.
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(Ahimè! quali
disastri minaccia la mia stella?) (da sé.)
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LUC.
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(Ah, invan
tento sdegnarmi in faccia alla mia bella). (da sé.)
Creusa, ti
sovviene chi tu sei, chi son io?
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CRE.
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Di te son io
l'ancella, Lucano è il signor mio.
Roma te diede
al mondo, e la mia patria è Atene:
Tu sei nato
agli onori, Creusa alle catene.
Viltà però
degli avi nell'alma non mi aggrava:
Libera in
Grecia nacqui, la sorte mi fe' schiava.
Tra' Siculi
infelici dal genitor condutta,
Mirai
dall'armi vostre quell'isola distrutta:
All'aquile
fatali, al popolo Romano,
Fra l'armi il
padre mio fe' resistenza invano;
Vuole il
destin, che a Roma tutto s'arrenda e ceda:
Ei fu preda
di morte, io d'un guerrier fui preda.
Questi a
vecchio mercante hammi, crudel, venduta;
Indi a te dal
mercante offerta e rivenduta.
Bella pietà
finora dolce mi rese il giogo;
Le lacrime in
secreto concesse per mio sfogo:
E in avvenir,
signore, per tua mercede io spero
Prove goder
maggiori di dolcissimo impero:
Che se
scacciar dal cuore non posso i patri lari,
Almeno i dei di
Roma mi rendano più cari.
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LUC.
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Onora i lacci
tuoi l'alma città latina,
De' popoli
l'asilo, del mondo la reina;
E un senator
Romano, di cui cadesti in sorte,
Fa belle
d'una Greca le docili ritorte.
Un lustro
egli è che meco sei per mio ben venuta,
In merto ed
in bellezza, come in età, cresciuta;
Vedi qual io
son teco. Non esser aspra e schiva.
Gratitudine è
quella che gli animi ravviva.
Fammi veder
che meglio la pietà mia comprendi,
E della mia
pietade prove maggiori attendi.
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CRE.
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Fui sempre a'
cenni tuoi obbediente ancella.
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LUC.
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D'obbedienza
chiedo una prova novella.
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CRE.
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Quale, signor?
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LUC.
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Che mi ami.
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CRE.
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Dal cuor nasce l'affetto.
Obbliga
servitute nulla più che al rispetto.
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LUC.
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Dunque m'aborri, ingrata?
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CRE.
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Il mio rispetto osserva
Le leggi d'una
schiava, il dover d'una serva.
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LUC.
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Serva,
soggetta e schiava all'arbitro, al signore,
Prestar dee
servitute, e se 'l richiede, amore.
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CRE.
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Amore è larga
fonte, divisa in più d'un ramo;
Amasi in
varie guise, in una sola io t'amo.
Amano i figli
il padre, l'amico ama l'amico,
Padron s'ama
dai servi, e questo è amor pudico.
Da fiamma
contumace, che l'onestade eccede,
Schiava fra'
lacci ancora esente andar si crede.
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LUC.
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No, se per lei
vezzosa il suo signor sospira.
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CRE.
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A nozze tali in
Roma un eroe non aspira.
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LUC.
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Ad altro
aspirar puote, quando l'amor l'accieca.
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CRE.
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Offender
l'onestade non consente una Greca.
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LUC.
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De' Romani la
legge te dallo scorno esime.
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CRE.
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Le leggi
d'onestade di Romolo fur prime.
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LUC.
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Quelle che Roma
approva, deon reputarsi oneste.
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CRE.
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Quelle che in
Grecia appresi, signor, non sono queste.
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LUC.
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In Grecia or
più non sei, ma in Roma, e fra catene.
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CRE.
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Il piè
strascino in Roma, ma il cuor serbo in Atene.
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LUC.
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Posso veder s'è
vero, col trartelo dal petto.
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CRE.
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Fallo pur se
t'aggrada; la morte è il mio diletto.
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LUC.
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Il tuo
diletto, ingrata, morte non è, ma vita,
Che invan goder
tu speri col tuo Terenzio unita.
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CRE.
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Ad uom di
pari sorte, di pari grado e amore,
Femmina non è
rea, s'offre la destra e il cuore.
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LUC.
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Fin dove
lusingarti potrebbe un folle ardire?
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CRE.
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A tollerar la
pena, a soffrire, a morire.
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LUC.
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Dunque d'amar confessi.
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CRE.
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Non so mentir: l'ho detto.
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LUC.
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(Ah! che mi
desta in seno pietà, più che dispetto). (da sé.)
Fingi d'amarmi
almeno.
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CRE.
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Che pro, s'io lo facessi?
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LUC.
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Fingi d'amarmi,
e finti concedimi gli amplessi.
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CRE.
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Deh
piacciati, signore, pregio di cuor sincero;
Piacciati in
donna umile, più che beltade il vero.
Il dir mi
costa poco: ardo per te d'amore;
Ma invan lo
dice il labbro, se non l'accorda il cuore.
Gli amplessi
lusinghieri, l'amor dissimulato,
Son fiori che
la serpe nascondono nel prato.
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