Ah, lo volesse il fato.
Uomo vulgar non sono, ma povertà m'opprime,
E per sudar fra l'armi non ho le forze prime.
Picciola terra antica, degli avi miei retaggio,
Ridussemi, venduta, all'ultimo disaggio.
Sperai colle monete, tratte dal terren colto,
Il piè della nipote mirar da' lacci sciolto,
Cambiando in varie merci dell'Attico paese
Il danar ricavato per lucrar nolo e spese;
Ma il lungo viaggio e 'l lungo variar delle tempeste
Privommi d'ogni speme, privandomi di queste.
Per cinque intere lune gioco del mar si feo
Nave che me chiudeva pel burrascoso Egeo;
E cento volte e cento m'empiero il cuor di gelo
Le Cicladi d'intorno all'isola di Delo.
Teti, Nettuno irati, orche, tritoni e glauchi,
D'Eolo sonando ai fischi tremuli corni e rauchi,
Nero il ciel, nere l'onde, nero de' mesti il viso,
Lungo timor nell'alme parea sempre improvviso.
Canapi rotti e antenne, sdruscito, ahimè, il naviglio,
Gettar gli arredi al mare fu provvido consiglio.
E i lavori e le merci di me primier di tutti
A saziar fur date l'ingordigia de' flutti.
Ferma, alla man crudele dir mi faceva il cuore:
Serba a misera figlia il prezzo dell'amore.
Abbia la greca schiava per voi paterna aita,
Sgravi la nave invece d'un misero la vita;
L'arca si serbi, e vada vecchio canuto all'onde.
Ahimè! l'arca si getta, e a me non si risponde.
Stava sul punto io stesso di darmi al mar fremente,
Ma in me perde ogni speme, dicea, figlia innocente.
Deh, l'Olimpico Giove salvo me guidi in Roma;
Offrirò ai lacci il piede, reciderò la chioma.
Godrò, pur che Creusa in libertà ritorni,
Vivere in servitute il resto de' miei giorni.
Questi i miei voti furo; salvo guidommi il nume;
Vengo a offerirmi al cambio per grazia o per costume;
E se cambiar si sdegna giovane in uom canuto,
Or la sfuggita morte richiamerò in aiuto,
E mirerò sin dove il cuor giunga inumano
Dal pianto non commosso d'un barbaro Romano.
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