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Fol. Servo umilissimo di Vossignoria Illustrissima.
Ros. Chi sei?
Fol. Sono Foletto, lacchè dell'illustrissimo signor Conte di Bosco Nero, ai comandi di V. S. Illustrissima.
Mar. Lo voleva dire, ch'era servitore di un Italiano. In Italia non vi è carestia di titoli superlativi.
Ros. Che dice il Conte tuo padrone?
Fol. L'Illustrissimo signor Conte, mio padrone, manda questa lettera all'illustrissima signora Rosaura, mia signora. (le dà la lettera).
Mar. Amico, siete stato a Parigi?
Fol. Perché?
Mar. Perché la vera scuola si trova solamente colà.
Fol. Eppure, benché non sia stato a Parigi, so anch'io una certa moda molto comoda per i servitori, e la metterò in pratica, se volete.
Fol. Che quando il padrone fa all'amore colla padrona, il lacchè fa lo stesso con la cameriera.
Mar. Oh, la sai lunga davvero!
Ros. Ho inteso: dirai al tuo padrone...
Fol. Ma per amor del cielo, mi onori, illustrissima padrona, della risposta in carta; altrimenti...
Mar. Non si busca la mancia, non è vero?
Fol. Per l'appunto. Chi è del mestiere, lo sa.
Mar. Che ti venga la rabbia, lacchè del diavolo!
Ros. (va al tavolino) Or vado a formar la risposta.
Fol. Francesina, come state d'innamorati?
Mar. Eh, così così.
Fol. La notte si calano prosciutti dalla finestra?
Mar. Oh, io non son di quelle.
Fol. Già me l'immagino. Ma pure, se ci venissi io, vi sarebbe niente?
Mar. Eh birbone! Sa il cielo quante ne hai!
Fol. Certo che col salario non potrei scialare, se non avessi quattro serve che mi mantenessero.
Fol. Via via, sarete la quinta.
Fol. Grazie a Vossignoria Illustrissima. Ma volevo dir io, illustrissima padrona, vi è nulla per il giovane?
Ros. Sì, prendi. (gli dà la mancia)
Fol. Obbligatissimo a V. S. Illustrissima; e viva mill'anni V. S. Illustrissima Francesina, a rivederci a stasera.