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LEL. Perdonatemi...
OTT. Che pretendete da me?
LEL. Riverirvi e supplicarvi di non negarmi una grazia.
OTT. Vi ho pur fatto dire, che ora non vi poteva ricevere.
LEL. Ed io, che ho necessità di parlarvi, non ho potuto far a meno di darvi il presente incomodo.
OTT. Con i galantuomini non si procede così.
LEL. Finalmente non parmi avervi fatta una grande ingiuria. Son uomo onesto ancor io, e un finanziere non perde della sua nobiltà ad ascoltarmi. (con qualche alterezza)
OTT. Via, che pretendete?
LEL. In pochi accenti procurerò di sbrigarvi. Io amo Rosaura, e la desidero per mia sposa. Florindo l’ama, e la desidera al pari di me; ma di un tal rivale mi rido, e mi dà l’animo di aver Rosaura, s’ella fosse nel castello d’Armida. Spiacemi per altro avere inteso che voi difendiate la causa del mio rivale, e per la stima che ho di voi, vengo a pregarvi lasciarmi in libertà di poter disputare la sposa, senza mettermi in necessità di perdere il rispetto a chi tentasse di proteggere un mio nemico.
OTT. Voi credete con le vostre parole di mettermi in soggezione, ed io vi dico che ai pari vostri non rendo ragione della mia volontà.
LEL. Signor Ottavio, io ho parlato finora con tutto il rispetto.
OTT. Orsù, favorite andarvene da questa casa.
LEL. Non me n’andrò, se prima voi non mi dite...
OTT. Basta così. Ho dei servitori che vi sapranno condurre.
LEL. I vostri servi non mi spaventeranno più degli sbirri, che ho fatto precipitar da una scala.
OTT. (Costui arriva all’eccesso. È capace di tutte le iniquità). (da sé)
LEL. (Principia a temere). (da sé)
OTT. Ma finalmente che pretendete da me?
LEL. Colle buone, signor Ottavio, colle buone. Non vorrei che proteggeste Florindo.
OTT. Io per lui non ho ancora parlato; per lui non ho fatto passo veruno.
LEL. Se non l’avete fatto voi, l’ha fatto la vostra signora.
LEL. Ella appunto; e so di certo, ed ho relazione sicura, che ella sia poco fa passata dalle camere del governatore alla carcere di Florindo.
OTT. (Mia moglie alla carcere di Florindo?) (da sé)
LEL. Abbiamo un governatore troppo condiscendente, che si lascia condurre, che fa a modo di tutti, e voi, sia detto a gloria vostra, esigete più stima del governatore medesimo; onde faccio con voi quel passo, che con lui non mi degnerei di far certamente. Signor Ottavio, vi supplico, fate conto della mia amicizia, non mi ponete in cimento.
OTT. (Beatrice in carcere! Per liberar Florindo vi era bisogno d’andar in carcere?) (da sé)
LEL. Signore, che cosa mi rispondete?
LEL. Pensateci; attenderò le vostre risoluzioni.
OTT. Andate, ve le farò sapere.
LEL. Oh, di qui non parto senza la positiva risposta.
OTT. Parlerò con mia moglie; non so qual impegno possa ella aver preso.
LEL. La signora Beatrice verrà a casa, ed io l’attenderò.
OTT. Io devo uscire di casa mia.
LEL. Servitevi. Frattanto, se mi date licenza, passerò un atto di convenienza col padre, o sia tutore, o sia benefattore di Rosaura, che so essere in casa vostra.
OTT. Sì, è quello che voi avete insultato.
LEL. L’ho fatto non conoscendolo.
OTT. E vi è la dama, che avete egualmente offeso.
LEL. Le tornerò a chiedere scusa.
OTT. E vi son io, che stanco di più soffrirvi, vi dico che ve ne andiate.
LEL. Signor Ottavio, andiamo colle buone.
OTT. Giuro al cielo! Vi credereste di farmi una soverchieria?
LEL. Non vi assicuro della mia collera.
LEL. Chi entrerà in questa porta, passerà per la punta di questa spada. (pone mano alla spada)