Carlo Goldoni
La moglie saggia

ATTO PRIMO

SCENA QUINDICESIMA

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SCENA QUINDICESIMA

 

Pantalone e detta.

 

ROS. Oh signor padre, a quest’ora?

PANT. Sì ben, cara fia, me giera sta dito che gieri sola, e son vegnù a farve un poco de compagnia.

ROS. Bravissimo, vi ringrazio di cuore.

PANT. Cossa fava qua quei do martuffi?

ROS. Sono venuti pieni di allegria, ed hanno voluto bevere una bottiglia.

PANT. Za i xe della bona lega. Cara fia, no i pratichè.

ROS. Io li tratto in una maniera che non li obbligherà a frequentarmi.

PANT. E vostro mario2 dove xelo?

ROS. Mah! (sospirando)

PANT. El sarà al logo solito.

ROS. Sì, ha cenato colla Marchesa.

PANT. L’ha cenà? Come lo saveu?

ROS. Me l’hanno detto quei due signori. Sono stati a cena ancor essi.

PANT. I ha cenà anca lori? Lori i xe vegnui via, e vostro mario xe restà ? Ho inteso.

ROS. E per questo, che cosa pensate voi?

PANT. Gnente. I zogherà a picchetto. (ironicamente)

ROS. Caro signor padre, non mi affliggete, non mi accrescete i sospetti.

PANT. Ah pazienza!

ROS. Io ho bisogno di chi mi consoli, non di chi pianga.

PANT. Povera desfortunada!

ROS. Sapete ch’io mi sono maritata per obbedirvi.

PANT. Ah, pur troppo xe vero. Questo xe el mio rimorso. Questo xe el mio dolor. Veder una fia3 sacrificada per amor mio. M’arrecordo, fia mia, sì m’arrecordo che con modestia ti m’ha fatto cognosser la poca inclinazion che ti gh’avevi per sto partio. Me son anca mi lassà acciecar dall’ambizion, credendo che el farte contessa bastasse per far la toa e la mia felicità. Me son lusingà che col tempo te podesse piaser el mario, e ho credesto che dovesse in elo durar quella tenerezza che el mostrava allora per ti. O poveretto mi! Ho pensà mal; adesso me ne accorzo, che ho pensà mal. Doveva prevéder che un signor grando, innamorà de una putta de grado inferior, l’ama fintanto che nol pensa alla so condizion e nol ghe pensa, se no quando l’è sazio dell’amor, e co l’è sazio, el cognosse el sproposito, e el se pente d’averlo fatto, e l’odia chi ghe l’ha fatto far. Povera putta! Povera Rosaura! Ti xe sacrificada per causa mia. Mi ho fatto el mal, e ti ti soffri la penitenza, ma se ti vedessi el mio cuor, ti vederessi che el mio dolor xe tanto più grando del too, quanto xe più grando d’ogni altro amor quello del pare, che supera tutti i amori del mondo.

ROS. Non mi fate piangere, per carità.

PANT. Rosaura, vien qua, fia mia, e ascolteme, e resolvi. Son ancora to pare. El vincolo del matrimonio no destruze quello della natura. To mario te pol comandar, ma to pare te pol conseggiar; e se el mario te tratta con crudeltà, no ti mancherà al to dover buttandote in brazzo d’un pare, che te aiuterà con amor. Vien con mi, fia mia, vien a star con mi, e no te dubitar, e non aver paura de gnente. Anderemo a Roma, dove che gh’ho casa e negozio. Se el sior Conte ne vorrà tettar de mazo4, anderemo a Venezia. Anca gh’ho casa, parenti e capitali. Fin che vivo, ti starà con mi. Co sarò morto, ti sarà parona de tutto. Ti viverà civilmente, e ti sarà una regina.

ROS. Ah signor padre, prima di consigliarmi ad una simile risoluzione, pensateci meglio. Avete confessato voi stesso aver errato nel darmi lo sposo: nello staccarmi da lui, badate di non far peggio.

PANT. No, fia mia, no fazzo mal a far sta resoluzion, a levarte dalle man d’una bestia indomita, che tratta con ti, come se ti fussi una so nemiga.

ROS. Io sono stata sempre rassegnata e obbediente ai vostri voleri. Non ho mai opposto ragioni ai vostri comandi. Ma ora permettetemi che vi dica ciò che mi detta il mio cuore e la presente mia condizione. Io son moglie del conte Ottavio, ed ho acquistato quel grado di nobiltà che ha saputo innamorare voi stesso. Questa nobiltà deve essere un bene assai grande, se voi siete stato sollecito in procurarmelo, e avete arrischiato tutto per questa sola ragione. Io per altro considero un bene maggiore nell’acquistata nobiltà, che forse voi non considerate. Se il cielo mi concederà dei figliuoli, saranno nobili veramente, ed io averò la consolazione di averli dati alla luce, e voi giubilerete mirando in essi il maggior frutto delle vostre premure. Dovrei dunque perder io questo bene, farlo perdere ai miei figliuoli, per il solo motivo di non soffrire? Ditemi, signor padre, chi è al mondo che qualche male non soffra? Figuratevi i disagi della povertà, i dolori dell’infermità. Il cielo che mi libera da tai travagli, mi vuol mortificare col poco amore di mio marito. Pazienza! Sarà segno che io non merito di essere amata. Segno che il cielo mi vuol oppressa per questa strada, forse perché non m’insuperbisca soverchiamente della mia fortuna; ed io mi credo in debito di ringraziare i numi per il ben che mi fanno, e non irritarli, ricusando l’amaro delle mie pene, con cui temprar vogliono il dolce delle mie e delle vostre consolazioni.

PANT. Cara fia, ti me fa pianzer, e no te so cossa responder.

 

 

 





p. -
2 Marito.



3 Figlia.



4 Disturbare.



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